Intervista a Pablo Echaurren
Tutte le esperienze hanno una storia. Dentro quella che stiamo per raccontare c’è un po’ di tutto: creatività, militanza politica, pensiero, memoria e presente. L’esperienza di Pablo Echaurren ci permette di non considerare quella sul vuoto ideale, filosofico e persino poetico – sempre più invadente, arrogante, prepotente, pragmatico e cinico – una battaglia persa in partenza. I ragazzi sovversivi, eroi di imprese contro gli idoli bugiardi che disintegrano, e le sciocchezze che ammalano, ci sono ancora, e possono ancora fare la differenza. Della “meglio gioventù” degli anni Settanta, Pablo è stato protagonista indiscusso, partecipando in maniera attiva al movimento degli Indiani metropolitani. Resistenza? Sì, è questo il valore sul quale questo artista eclettico, controcorrente per natura, e allergico a ogni dinamica assoggettante, ha voluto improntare la propria esistenza. Dotato di uno straordinario dinamismo, Echaurren ha applicato il suo estro in qualsiasi campo: dalla pittura alla ceramica, dai poster ai manifesti, dalle copertine – indimenticabile quella realizzata nel 1976 per il best seller Porci con le ali – fino alla scrittura di libri e alla realizzazione di fumetti. È anche attraverso l’atto della creazione che Pablo ha marciato, divertendosi a sparpagliare le carte e le regole. Oggi osserva, distante da etichette e simboli incerti, continuando a produrre «Anche se molto poco», ci dice.
Com’è oggi la vita, Pablo?
È una vita in parte pacificata con me stesso, appartata, quasi isolata. Mi fanno domande sul passato remoto a cui rispondo diligentemente. Cerco di mettere ordine in ciò che ho fatto e pensato. Riannodo i fili tra momenti che paiono scollegati ma non lo sono. Ritrovo il bandolo di una matassa assai arruffata. Mi sento così distante dalla piega che ha preso la realtà che preferisco disconoscere la mia appartenenza al genere sapiens e optare per quello neanderthalensis. Leggo molto in proposito, tornando sui miei passi di bambino che voleva diventare un naturalista, un paleontologo, un entomologo.
Divenuto adulto, però, hai dato il via a un’esperienza umana e artistica vissuta con assertività, attraverso prese di posizioni nette, non convenzionali, anarchiche, punk. È stata una fatica vissuta in solitudine?
Una traversata nel deserto. Il deserto dello sfilacciamento delle posizioni, della perdita di senso, di una indifferenza e di un’ostilità abbastanza diffusa. La sensazione di non avere mai incontrato, se non in rarissimi casi, dei validi compagni di strada. La percezione che tutto sia stato vano e che solo il riconoscimento mediatico ed economico venga considerato, anche da parte di chi pare trovarsi su posizioni antisistema. Una navigazione in solitaria e controvento che meritava in ogni caso di essere affrontata. Prima dello schianto, almeno.
L’ambizione massima – di voi artisti che avete animato il decennio dei Settanta – era quella di uccidere l’arte, di farla resuscitare a una nuova vita più immersa nella quotidianità, per sottrarla al predominio del mercato. Per un attimo, probabilmente, ci siete riusciti
Ci teneva insieme la certezza che la creatività non dovesse essere appannaggio di specialisti, professionisti, impiegati dell’intelletto. Si pensava che ci fosse un flusso di desiderio che poteva essere intercettato e che più teste messe insieme potessero dare vita a qualcosa di più emozionante che non l’opera di un singolo, per quanto geniale potesse essere. Penso alle intemperie che ho attraversato come a un campo magnetico capace di attivare forze altrimenti inerti; forze che per un istante comunicarono tra di loro creando una rete linguistica del tutto nuova e inaspettata. Ma il sogno si infranse contro le barriere di chi cerca sempre di definire ciò che è arte e ciò che non lo è. Così quella aspirazione a essere tutti artisti o meglio “anartisti”, si tramutò nel suo incubo peggiore: essere tutti artisti che aspirano a un invito alla Biennale, alla Quadriennale, pronti a essere inquadrati nel piano Quinquennale di imbalsamazione delle spinte di contestazione che avevano egemonizzato una generazione. Un vero e proprio “ritorno all’ordine” all’insegna dell’individualismo, del “mestiere” – come qualcuno strombazzava –, dell’ispirazione, della fine dell’impegno politico visto come una debolezza, una nefandezza. Un atteggiamento fuori tempo massimo. In definitiva si può affermare che “L’immaginazione al potere”, il famoso slogan del Sessantotto, si è rivelato sbagliato. O l’immaginazione o il potere, dove c’è l’uno non c’è posto per l’altra e viceversa.
Se pensiamo che il valore di un artista si calcola perfino in base al numero di seguaci su Instagram…
Direi piuttosto che il valore viene determinato dal prezzo. La totale sudditanza al meccanismo-dato ha prodotto un mondo fatto di adoratori del Corpus Christie’s e del Corpus Sotheby’s. Pochi riescono ormai a sottrarsi a tale fascinazione.
Che cosa non ha funzionato?
La capacità di seduzione del potere è qualcosa di indiscutibile. Partecipare alla rincorsa del successo è lo sport oggi maggiormente praticato e promosso. Solo il successo sembra conferire concretezza al proprio operare. Niente esiste senza successo. Se si è disposti ad apparire sulla scena, e a restarci senza alcun orrore verso se stessi, allora si è pronti per diventare star, geni, santi. Pochi resistono, pochi reagiscono. Inoltre i meccanismi di recupero, anche dei più riottosi, sono talmente efficaci da creare nei prescelti l’illusione di restare incontaminati.
Con profonda consapevolezza, bisogna ammettere che lo svuotamento delle coscienze e lo sfruttamento dell’umanità – sempre più al servizio delle aziende e non viceversa – sono fra le cause di un malessere che non arretra, ma si espande
L’abbassamento continuo e inarrestabile di ogni capacità critica, la perdita di memoria e di orientamento, sostituiti da una continua mutevolezza e variabilità dei punti di riferimento, tutte queste cose insieme hanno raso a zero l’elettroencefalogramma del panorama civile e intellettuale sempre più impegnato a raggiungere una sintonia con i media dominanti. Sarebbe necessario sottrarsi, limitarsi, contenersi, non sottomettersi alla logica produttiva, tipica dell’industria, che ossessiona tutti quanti. Si passa da un’idea all’altra, da una testata all’altra, da una ribalta all’altra, con lo stesso cinismo con cui si inaugurano i ristoranti e le pizzerie nati per riciclare i soldi sporchi.
È inutile far finta di niente: siamo immersi in parodie di democrazia
Siamo circondati da parodie in letteratura, arte, filosofia, politica… Perfino il gesto più radicale diventa oggetto di falsificazione, di rovesciamento, di svuotamento. I musei espongono simulazioni di rivolte, ricostruzioni catastrofiche, rappresentazioni preconfezionate di disperazione e rabbia sociale buone per essere celebrate e acquistate da chi le ha causate. Diceva Léon Bloy che «il Borghese, quando s’è ritirato dagli affari e ha sposato l’ultima figliola, incoraggia la belle arti» ed è pronto a «pagare carissima la paccottiglia degli artisti di grido». Bisogna invece sempre ricordare che Marcel Duchamp non ha mai venduto un quadro o un ready made. Oggi è il più citato, imitato, mistificato, con una improntitudine che ha superato la soglia del ridicolo.
Oggi, secondo te, gli artisti sono davvero liberi?
Niente affatto, sono prigionieri di un messaggio perverso che gli fa credere di potere aspirare all’eternità sotto forma di riconoscimento monetario. Ma ogni banconota vista di profilo si assottiglia fino ad annullarsi.
Molti, però, prendono parte, si schierano. La militanza nell’arte e nella comunicazione creativa ha sempre contribuito a ridare dignità e splendore alla società
Formalmente è vero, molte manifestazioni ufficiali mostrano un sempre maggiore interesse verso un’arte “impegnata”, ma lo fanno in modo strumentale, spettacolare. Estetico. Non sono tanto ottimista… Non basta trasferire in una sala espositiva gli umori della piazza, portare all’interno del palazzo i rumori, i colori e gli odori della strada. In questo modo non si fa altro che mettere sotto vetro il problema, presentarlo in una bella cornice, trasformarlo in uno specchio che non si intende comunque attraversare. Farne un feticcio da contemplare.
L’energia della rivoluzione dei Settanta si è affievolita, dispersa. Ma in te resiste. Sentiremo prima o poi, la felicità civile, collettiva, tornare a scorrere?
Questo non sta a me dirlo, ho fatto il mio tempo. Sta agli altri fare qualcosa di nuovo, di diverso. Ogni opera d’arte – e sottolineo che non mi piacciono le parole “opera” e “arte” – dipende da chi la fa ma soprattutto da chi la riceve in consegna, da come la percepisce e riesce a trasmetterla a sua volta a chi verrà dopo. Sta alle generazioni future valutare la validità e eventualmente darle un seguito. Penso che ci sono momenti “caldi” che attivano le coscienze e le intelligenze e momenti “freddi” in cui quelle stesse energie si raffreddano, si rattrappiscono, vanno in letargo. Ma come per le fasi climatiche c’è un’alternanza di periodi glaciali e interglaciali. Inevitabilmente. C’è vita su questo pianeta, almeno fino all’estinzione definitiva.