La ricorrenza del settantesimo anniversario dell’indipendenza di India e Pakistan ha rinnovato uno sguardo retrospettivo sulla “Partition” dell’agosto 1947, alimentando il dibattito sulle radici delle tensioni che ancora oggi infiammano il Subcontinente indiano. Il processo di separazione-indipendenza dei due Paesi sud-asiatici fu un evento epocale che si tramutò in uno dei momenti più drammatici del secolo scorso, causando più di dieci milioni di sfollati e oltre un milione di morti. La Partition maturò nella prima metà del Novecento col progressivo indebolimento dell’impero coloniale britannico e la nascita di movimenti indipendentisti che ben presto si condensarono attorno a due poli ideologici inconciliabili rappresentati dal Partito del Congresso (Gandhi e Nehru) e dalla Lega musulmana (Muhammad Iqbal, l’Agha Khan e Muhammad Ali Jinnah). Quest’ultima si pose a difesa degli interessi della comunità musulmana e gettò le basi per la costituzione di una nazione indipendente e a base religiosa, il Pakistan.
Il processo storico fu tortuoso e incerto fino alla repentina escalation del 1946-47, quando disordini a carattere interreligioso scoppiarono con particolare virulenza dal Bengala al Punjab spingendo lord Mountbatten, ultimo viceré inglese, e i protagonisti della scena politica indiana ad affrettare la definizione costituzionale e il passaggio di consegne. Con l’inasprirsi delle violenze fra hindu e musulmani le ultime velleità di mantenere integra l’unità territoriale del subcontinente furono accantonate. In poche settimane una commissione guidata da Cyril Radcliffe tracciò nuovi confini sulla carta; le mappe furono consegnate solo due giorni prima delle proclamazioni di indipendenza e l’artificiosa soluzione mal si adattò a una realtà socio-culturale estremamente frastagliata. Interi nuclei familiari furono separati, mentre comunità che per secoli avevano condiviso i medesimi spazi furono allontanate da identità nazionali contrastanti e costrette a scegliere se restare in un Paese divenuto ideologicamente ostile o migrare verso luoghi sconosciuti.
Nella febbrile concitazione di quelle ore rabbia, avidità e vendetta si impossessarono delle masse, traducendosi in ondate di massacri che colpirono tutte le comunità etno-religiose coinvolte. Momento fondante e drammatico, il cataclisma dell’agosto 1947 ha profondamente segnato la coscienza del subcontinente divenendo tema ricorrente di uno dei più vivaci panorami letterari contemporanei. Impresso nell’immaginario collettivo, il comunicato radio del Pandit Nehru, rivolto alla nazione indiana nell’ora dell’indipendenza, la notte fra il 14 e il 15 agosto, riecheggia assiduamente nelle rielaborazioni letterarie degli eventi come una litania: «Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo dorme…».
Rievocato come incipit e fatale spartiacque, il discorso scandisce la trama di una delle opere più apprezzate di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte (1981; ed. it. Mondadori). Con fluido racconto onirico l’opera rappresenta simbolicamente la genesi dei due Stati e delle loro conflittuali identità attraverso le vicende di un gruppo di bambini nati allo scoccare dell’indipendenza e legati da poteri magico-psichici.
I legami spezzati dalla Partition e il senso di una caleidoscopica cultura infranta affiorano nell’epopea familiare narrata da M.J. Akbar in Fratelli di sangue (2006; ed. it. Neri Pozza). Nell’umido microcosmo del Bengala l’autore fa rivivere la profonda umanità e la simbiotica essenza dell’ibrida civiltà indo-musulmana. Il sanguinoso epilogo di quel mondo è descritto anche da Khushwant Singh nella sua opera intitolata Delhi (1990; ed. it. Neri Pozza).
La grande capitale non fu esente da uno sconvolgimento demografico che ne tramutò volto e cultura con il riversarsi di rifugiati sikh e hindu e la fuga di molti musulmani. Khushwant Singh, spettatore di quei travagliati eventi, pubblicò nel 1956 Quel treno per il Pakistan (ed. it. Marsilio), una delle prime opere ad affrontare apertamente e senza pregiudizi il tema dei massacri perpetrati sui vagoni carichi di profughi che attraversarono il Punjab da una parte all’altra del confine. Come una sorta di grande destino la Partition irruppe nella quotidianità degli individui e continua oggi a modellare le loro esistenze. Così nel crudo ritratto di Mumbai, Maximum City (2004; ed. it. Einaudi), Mehta Suketu registra il livore degli slum che deflagra ciclicamente in violenze interconfessionali. Nella megalopoli contemporanea episodi isolati, rivolte di quartiere, marginalizzazione delle minoranze, al pari dei gravi disordini seguiti alla distruzione della moschea di Babur ad Ayodhya (1992), hanno una matrice comune nell’integralismo razziale attecchito sul trauma della Partition e sulla sua strumentalizzazione come linguaggio di odio.
Partendo dalle numerose rielaborazioni letterarie e dalle infinite esperienze individuali ora raccolte in archivi digitali sempre più cospicui (http://www.1947partitionarchive.org/library) si può rileggere l’evento da mille angolature diverse e risalire un vorticoso flusso narrativo che ricuce memoria collettiva ed esperienze personali. La narrazione ininterrotta delle vicende ha infatti la forza di un mito cosmologico su cui si fonda la coscienza sociale di India e Pakistan; eppure, lontano dalla retorica di Stato, queste voci restituiscono un quadro autentico dell’evento storico e mettono in luce una controversa eredità ancora capace di alimentare inquietanti derive populiste nel presente di entrambi i Paesi.