Svolgere attività motoria è consentito da decreto e per me vuol dire passeggiare. Così sono uscito di casa per andare in piazza della Repubblica e incontrare una statua.

Roma è un grande cane assonnato, avvolto su sé stesso in un tepore onirico. Nessun turista che si perde e pochissime persone in strada. Le strade cittadine, monumentali e tronfie, somigliano al celeberrimo dipinto La Città ideale conservato a Urbino nella Galleria nazionale delle Marche. Di rado si vede qualche macchina guardinga della polizia, un camion delle consegne volta l’angolo, lento e circospetto l’autista cerca di leggere i numeri civici dal finestrino. Agli angoli delle strade manifesti ingialliti pubblicizzano eventi del mese di marzo. I chioschi dei fiorai di piazza Vittorio resistono ma sembrano galline spennate, aiuole dopo il passaggio di un gregge di capre. Qualche scheletro rinsecchito si intravede tra le accese corolle: “memento mori” a buon mercato. Gli alberghi spenti sulla strada sono di una tristezza sconfinata e così se per le case immagini che dietro ogni finestra ci sia una famiglia raccolta, due amanti, uno scrittore folle, per le finestre d’albergo puoi essere sicuro che sono scorze vuote.

Qualcuno guarda dalla finestra. Sembra di conoscerlo: il dolore più della gioia ci fa familiarizzare all’istante, quasi mi viene voglia di salutarlo. Mi passa accanto un bambino a cavalcioni sulle spalle del padre, gioca disegnando con le dita nuvole nel cielo, mi guarda, sorrido, di solito ad un sorriso estraneo i bambini rispondono con uno sguardo ancor più intenso, ho la mascherina! Lui non vede il mio sorriso e continua a disegnare in aria. Devo assolutamente imparare a sorridere con gli occhi. Quei pochi che si vedono in giro non vogliono essere disturbati dal loro silenzio, camminano come topolini di campagna: sotto le mura costeggiando i palazzi, fa eccezione solo chi è in giro con il cane che fortunato dialoga.

Arrivato in piazza della Repubblica si ossigena lo sguardo e mi accorgo che ho camminato tutto il tempo trattenendo il respiro. Alzo gli occhi e mi incanto nell’osservare la curva bianca dei due palazzi speculari. Sembra la vertebra di un corpo ciclopico che protegge gli organi vitali, come se lì fosse sdraiato su un fianco uno di quegli scheletri di De Dominicis. In realtà quei due palazzi-porticati sono stati disegnati negli ultimi anni del XIX secolo da Gaetano Koch che diede una forte impronta neoclassica alla piazza, ricordando l’originaria funzione di quello spazio ovvero l’esedra delle terme di Diocleziano.

Su un lato della piazza che per anni ha avuto il nome di Esedra, si vedono le vestigia delle terme, le più grandi mai costruite dai Romani. Anche la basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri è stata costruita nei resti delle terme, consacrata agli Angeli e ai Martiri cristiani che, secondo la leggenda, edificarono le terme. Alla realizzazione della basilica lavorò Michelangelo che optò per un restauro prevalentemente conservativo dell’apparato termale.

Attraverso la piazza fino a raggiungerne il centro dov’è la fontana. Faccio un giro tutt’intorno, poi mi volto e lo rifaccio al contrario: bisogna vedere le cose sempre da tutte le prospettive possibili. Il mio sguardo è subito catturato dai corpi delle Naiadi: ninfe da cui la fontana prende il nome. Il gruppo bronzeo composto da quattro statue è disposto in cerchio. Il progetto è di Mario Rutelli, bisnonno dell’ex sindaco di Roma Francesco.

Nonostante il passare degli anni e l’ammalorarsi delle superfici, le nudità e le pose di quelle donne ancora rapiscono l’occhio curioso. Basti pensare che quando nel 1901 quei corpi furono allocati in piazza crearono scalpore e il Comune per sedare l’opinione pubblica coprì la fontana con un recinto di legno, ma tanta era la curiosità dei romani di scoprire quei corpi che un gruppo studentesco in maniera fedifraga autorizzò l’inaugurazione abbattendo le barricate. Oggi non fanno più scandalo ma conservano intatta la bellezza, come se lo scultore avesse voluto ridistribuire in eterno, istillando in quelle forme bellezza, una felicità ricevuta. Un atto di liberalità per un dono d’amore ottenuto. Sotto ogni ninfa figura un animale marino proprio per evidenziare l’aspetto naturale di questi esseri. Goethe nel Faust dedica alle Naiadi una breve poesia raccontando proprio della loro natura selvaggia: «O sorelle! Noi, di sensi ben più mossi, corriam via più lontano, coi ruscelli; poiché a quella lontananza ne lusingan le attrattive di colline lussurianti».

Al centro della fontana svetta Glauco, la statua che dovevo incontrare. È dello stesso scultore delle Naiadi ma successiva. Glauco abbraccia un delfino da cui fuoriesce un getto d’acqua. La sua storia è narrata nelle Metamorfosi di Ovidio, ma sono molti a riprendere la storia di questo pescatore mortale che dopo aver mangiato dell’erba magica diventa un Dio immortale. Dante si paragona a Glauco nel primo canto del Paradiso quando la vista celestiale di Beatrice ha in lui lo stesso effetto messianico che ebbe per Glauco mangiare l’erba. L’aspetto di Glauco è quello di un essere mostruoso giacché trasformatosi in divinità marina vive tra i flutti del mare, con conchiglie e detriti che gli sfigurano il corpo ma non lo spirito. Tanto brutto da spaventare Scilla, la divinità di cui si era perdutamente innamorato.

Anche Platone, nel X libro della Repubblica, si sofferma sul corpo di Glauco e lo fa per indagare l’anima, che non va ricercata nell’aspetto esteriore ma scrostando la bestia marina conosceremo Glauco. Lo scrittore francese Rousseau nella prefazione del suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini scrive: «Simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e le tempeste avevano talmente sfigurato che somigliava meno a un dio che a una bestia feroce, l’anima umana ha per così dire cambiato aspetto al punto di essere quasi irriconoscibile». Ma il più dolce ricordo è quello della “Dea glaucopide”, epiteto con cui Omero nell’Odissea definisce «Atena dagli occhi azzurri».

Diverse virtù, diverse volontà, si contendono lo spazio della piazza. Due anime soffiano, quella moderna e quella classica in una contraddizione mostrata, evidente nelle sue forme. La città è vuota ma non devitalizzata né desertificata giacché la storia non è un ricordo trascorso ma memoria immaginativa, coscienza comune che non chiude il circolo delle idee ma le informa ovvero le mette in forma di comunità. E allora non bisogna andare lontano, viviamo già tra relazioni che possono diventare riflessioni: sono le città dove la libertà di cui godiamo è l’esaltazione di ogni aspetto della natura umana.

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