È meglio finire tra i corvi che tra gli adulatori; perché quelli divorano solo i morti – questi i vivi.

La frase di Antistene è all’origine di una vasta letteratura sull’adulazione, ma quella del filosofo greco appare insuperabile, nonostante la traduzione italiana sacrifichi il gioco di parole con cui l’aforisma è costruito. L’efficacia dell’ammonimento rimane retorica, perché alla prova dei fatti il destinatario, l’adulato, non è mai sembrato disposto ad accoglierlo. A quanto pare, la maggiore abilità dell’adulazione è quella di sottrarsi alle catalogazioni tradizionali dei vizi e, nonostante gli avvisi autorevoli, da Cicerone a Tacito, pochi notano che è pratica assai diffusa. E in questo forse consiste la sua più sublime capacità, di aver convinto gli uomini, proprio come Baudelaire diceva del demonio, che non esiste.

Quella letteratura che dipinge l’adulazione come un veleno o una peste si basa sulla convinzione, di cui l’esperienza ingrossa quotidianamente la casistica, che essa provochi un pervertimento dei costumi pubblici. E quindi, oltre ad essere una denuncia etica, è anche un danno sociale: una distorsione dei valori provocata dai vizi privati che rendono la comunità ingiusta ed ‘economicamente’ più povera. Le conseguenze dell’adulazione dovrebbero essere prese sul serio, perché si tratta di una negazione dei diritti.

L’adulazione può essere associata all’invidia, perché in fondo l’adulatore è un invidioso, ma più esperto e per ciò più insidioso, perché come quello vuole in un certo senso sottrarre in modo subdolo un bene a chi lo detiene, ma per vie diverse, coperte ed apparentemente amiche. Per tale ragione Dante ha collocato gli adulatori nella bolgia dei fraudolenti e tra i seduttori, perché la loro arte è una forma di inganno. E non ha trattenuto per costoro il proprio disprezzo, coprendoli di sterco, inesorabile contrappasso al profluvio di miele delle parole usate in vita: «qua giù m’hanno sommerso le lusinghe/ond’io non ebbi mai la lingua stucca», spiega l’adulatore dantesco: la sua lingua non riesce mai a saziarsi delle lusinghe che essa stessa pronuncia. L’immagine, anche questa, è da cornice. Dalla lingua bulimica che si nutre in modo smodato dell’elogio con lo scopo di ottenere favori, la cui metafora deteriore e popolare è il leccapiedi, si passa alla lingua biforcuta dell’invidioso, come l’ha raffigurata Giotto, perfida e distruttiva, che rovescia la lusinga in maledizione. E qui cominciano a staccarsi le differenze: l’adulatore indossa una livrea per trasformare l’impulso del dire male (perché vorrebbe tanto dire male) nel dire bene – molto bene – alla persona di cui canta le lodi. Ed ecco il punto ulteriore: non vi è piaggeria senza la diretta interlocuzione tra i soggetti. Mentre l’invidioso semina il veleno della propria acredine lontano dalle orecchie del suo avversario, la lingua dell’adulatore cerca in modo oculato quelle orecchie per versarvi le proprie blandizie. Lì avviene l’incontro fatale che dalla mitologia alla favola è stato narrato. L’adulatore diviene lo specchio, naturalmente falsato, sul quale l’adulato ama riflettersi, compiacendosi nel florilegio tessuto del cortigiano interessato. E come Narciso che non riesce a staccarsi dalla contemplazione della propria immagine, l’incensato non tollera che lo specchio possa restituire un responso diverso che la sua vanità o bisogno di rassicurazione esigono, pronto a scagliare, qualora ciò disgraziatamente avvenisse, il martello contro lo specchio ‘infedele’ o il grillo parlante. Ma sfortunatamente è nella natura dello specchio restituire ciò che è, ed è la realtà non gradita che l’adulato non tollera: una debolezza su cui attecchisce e prospera la fortuna dell’adulatore. E questo ci consegna il corollario dell’apologo. Il potente sembra trovare irresistibile lo specchio dell’adulatore, mentre è propenso a riversare sul grillo parlante un’avversione simile a quella che riserva all’invidioso.

Quando si parla di adulazione, dunque, è al potere che ci si riferisce, in qualunque sua dimensione o entità, esattamente come Max Weber ha definito il «concetto estremamente ampio» della politica, salvo poi concentrarsi sull’associazione politica per eccellenza che è lo Stato.

Una delle pagine più luminose sulla meccanica dell’adulazione le ha raccontate Pier Paolo Pasolini in uno straordinario articolo apparso su Il Mondo il 28 agosto 1975, pochi mesi prima della sua morte. In quell’analisi implacabile e, se è lecito dirlo, profetica, l’intellettuale inquadra la crisi della repubblica italiana nell’azione storica di una classe politica (democristiana), invocando per essa un processo con dei capi di accusa che andavano oltre le misure adottate dai governi, ma che si estendevano a più vaste e decisive responsabilità per la corruzione materiale e morale che aveva inabissato il Paese in una irrimediabile decadenza sociale che investiva tutti gli aspetti della vita pubblica. E la narrazione pasoliniana è superba perché fa di un aneddoto la descrizione dell’essenza della piaggeria, il fascio di luce che illumina i poliedrici aspetti della dinamica asimmetrica della adulazione: la relazione di potere tra signore e servo. Amintore Fanfani, tra i più potenti politici italiani se mai ve ne furono tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ebbe a raccontare un episodio che lo riguarda e che diventa per Pasolini un paradigma di quello che lui definisce il Palazzo.

Scrive Pasolini: «Costui (è Fanfani a parlare) si era a lungo prosternato davanti al potente segretario della Dc per ottenere non so che carica ministeriale: l’aveva adulato nel modo più osceno (“gettando la sua giacca sotto i miei piedi” dice esattamente Fanfani). In conclusione, Fanfani ha concesso quella carica, tanto ardentemente desiderata, al suo adulatore. Sappiamo, così, come in Italia viene concessa una carica pubblica a livello di governo»,

Ecco, questa pratica, al di là dell’episodio, ci dice dell’Italia dell’epoca e, c’è da temerlo, di ogni qual volta subentra nell’esercizio del potere e della conseguente deformazione della vita pubblica. Dai più alti livelli e di quelli più minuti, estemporanei, periferici. Con un post scriptum. Fanfani raccontò quell’episodio quando fu defenestrato dalla guida del partito, e lo raccontò perché l’adulatore, ottenuto il ministero ardentemente desiderato e chiesto a chi poteva concederglielo, non gli ricambiò il favore del sostengo nel momento del bisogno, lamentando del cortigiano infedele l’ingratitudine. Qui si aprirebbe un’altra ricca e contigua letteratura. Ma intanto ci si potrebbe limitare a chiosare di come ebbe ad essere, per il potente adulato, un contrappasso immediato e in fondo meritato. Antistene aveva ragione.

Immagine: L’Invidia raffigurata sulle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova. Crediti: Joe Shlabotnik [Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0)], attraverso flickr.com

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