È in una pagina degli scritti teologici giovanili che Hegel affronta per la prima volta, immergendovisi, il ruolo dell’essere mortale nella dialettica dell’amore: «perché l’amore è un sentimento del vivente, gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali […] Che gli amanti abbiano autonomia, e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire»; «nell’amore», prosegue, «il vivente sente il vivente. In esso, cioè, tutti i compiti, l’unilateralità autodistruttiva della riflessione e l’infinita opposizione dell’unificare inconsapevole, non sviluppato, vengono risolti». L’amore, in qualche modo, disdegna ciò che è separato ma non può fare a meno, allo stesso tempo, di rimarcare questa distanza, pena l’eclissi di ogni desiderio; in un movimento del tutto simile a quello descritto da Sofocle in un frammento superstite di un dramma satiresco, Gli amanti di Achille, in quei versi dove il blocco di ghiaccio che giovani mani avvolgono diviene acuta metafora della natura ancipite del desiderio: laddove il momento preciso in cui la massa che si scioglie non può più essere trattenuta né posata è affine a quello che spinge l’amante ad agire e a non agire, sospendendone la vita in un entre-deux pascaliano perpetuamente vibrante, mobile.

Questa medesima inquietudine anima anche le pagine di Purezza di Garth Greenwell, pubblicato da Einaudi nella traduzione di Matteo Colombo, un’inquietudine capace di addentrarsi fino al limite dell’annichilimento. Il protagonista del romanzo è un giovane professore americano che insegna in una scuola a Sofia, in Bulgaria: il senso di estraneità col quale nutre la propria solitudine di espatriato viene inspessito dalla propria condizione di omosessuale, che in un Paese così conservatore sembra relegarlo in una sorta di cielo lontano, inavvicinabile a quella terra dove il tepore della vita sembra ancora aleggiare. Attraverso un moto narrativo allo stesso tempo dispersivo e concentrico, le tre parti del romanzo incarnano già a partire dalla propria fisionomia la natura contraddittoria del desiderio, il suo perenne, infinito tendere a un fine sempre inevitabilmente rimandato e sfuggito, orizzonte irraggiungibile; e se Bruno Snell riconosce, nelle scintille incandescenti che il desiderio sprigiona a contatto con l’occlusione che gli impedisce di giungere al proprio oggetto, la nascita dello spirito greco, analogamente Greenwell rintraccia nella frustrazione che avvince la sua esistenza la scaturigine di un conoscere che non sarà in alcun modo distaccato bensì vissuto – nel dolore che lo devasta, il disegno che la scarificazione rituale imprime nel corpo non come sapere divulgato ma come ineffabile conoscenza, sophìa che non si apprende ma che si diviene.

E a questa sophìa, la cui phoné intride il nome della città dove il protagonista vive, sembra non si possa giungere se non attraverso l’estenuante dissoluzione della linea netta con la quale l’individuo, grazie al proprio ego, ritaglia dal ribollire della vita la propria apparente separazione: a questo brulicante pullulare il protagonista di Purezza pare tendere incessantemente nell’azzardo delle proprie azioni, nel giocare letteralmente sé stesso su piani teatrali e performativi il cui vorticare non potrà che smarcarlo da quella centralità che, come una persistente illusione ottica, ineludibilmente contraddistingue l’uomo contemporaneo. Sciogliersi nell’ascolto della confessione di un proprio studente o nell’onda ribollente di un corteo è, in un certo senso, il gesto prodromico di quella devastazione, di quel ridursi a tutti gli effetti a nulla che i due capitoli centrali della prima e della terza parte mettono in atto con profonda densità di linguaggio: nei due brucianti incontri sessuali che il protagonista descrive con una plasticità di linguaggio che quasi tenta di simulare i movimenti della realtà extralinguistica, Greenwell si allontana dal normale regime rappresentativo che la parola mette in atto per sprofondare in un groviglio materiale indifferente a qualsiasi visione dall’alto, al gesto che spiritualizzi l’inorganico. Al contrario, da questo punto cieco l’autore si sforza di lasciare essudare uno spirito che non sia distaccato da quell’opacità, bensì sua componente costitutiva e profondamente essenziale, inseparabile dal gesto che la mette in evidenza, che la anima e rende viva.

Questa unità, che scalza ogni dicotomia platonizzante, potrà essere esperita grazie alla porta stretta dello choc, di un gesto violento e disumano, il solo capace di lussare lo scorrere troppo fluido della vita imbrigliata nella cosmesi delle convenzioni. Atto che si costituirà anche, nella visione dell’autore, come unico passaggio, in definitiva, verso quell’amore “felice” (per citare Ceronetti) la cui natura non sarà di certo quella di un sonnacchioso ménage feriale. Incapace di stasi, il desiderio si muove in continuazione, configurando la vita del protagonista in una permanente instabilità che la scrittura di Greenwell, così acuta e capace di sciogliersi, come cera, negli interstizi ombrosi della passione, mima in modo straordinario, con una fisionomia del tutto peculiare, allo stesso tempo concreta e trasfigurante.

◊ Garth Greenwell, Purezza, traduzione di Matteo Colombo, Einaudi, 2022, pp. 200

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