È la sera del 13 novembre 1987 quando nelle case degli italiani si inizia a parlare di prova del DNA. Su Rai 2, in prima serata, sta andando in onda Giallo, un programma di approfondimento condotto dall’indimenticabile Enzo Tortora, appena assolto in via definitiva dalle infamanti accuse di associazione camorristica e traffico di droga. Tema centrale della puntata è l’omicidio di Lidia Macchi, una ragazza di 21 anni uccisa nel gennaio del 1987 a Cittiglio, in provincia di Varese. Le indagini fino a quel momento non hanno portato a nulla di concreto e Tortora, dopo aver esposto il caso, introduce per la prima volta il concetto di DNA fingerprinting, ossia di impronta genetica.

Di cosa si tratta? In parole semplici, quello stesso DNA descritto per la prima volta da James Watson e Francis Crick nel 1953, non solo differisce da specie a specie, ma ogni singolo soggetto appartenente a una specie possiede un suo DNA, unico e irripetibile, che quindi diventa la sua firma, la sua impronta genetica. Questa fondamentale scoperta, che di lì a poco rivoluzionerà per sempre la storia delle scienze forensi, si deve ad Alec Jeffreys, un genetista britannico, che tra il 1983 e il 1984, studiando dei campioni di muscolo di foca, individua delle sequenze di DNA che si ripetono e che si trovano in punti specifici del genoma. Jeffreys chiama queste sequenze variable number tandem repeats (VNTR), in italiano “minisatelliti”. Proseguendo con gli esperimenti sull’essere umano arriva a stabilire che queste sequenze creano frammenti di DNA di lunghezza diversa per ciascun individuo, la cui analisi permette quindi di identificare con certezza un singolo soggetto.

La scoperta di Jeffreys è la chiave di volta che permette di dare un fondamento scientifico a un’altra grande intuizione, elaborata nei primi del Novecento dal criminologo francese Edmond Locard e nota come il principio di interscambio di Locard: «Quando due oggetti entrano in contatto, ognuno lascia sull’altro qualcosa di sé; quindi un individuo che commette un crimine lascia qualcosa di sé sulla scena del crimine e, parallelamente, qualcosa del luogo del delitto rimane sul reo».

Tornando ad Enzo Tortora, quindi, durante quella diretta sul caso Macchi, dopo aver spiegato a grandi linee questa scoperta, lancia una proposta: perché non provare a utilizzare la ricerca dell’impronta genetica per trovare l’assassino della giovane? D’altra parte, l’anno prima, in Inghilterra, quella stessa tecnica aveva permesso di risolvere un caso di duplice omicidio. L’idea di Tortora desta molto interesse e curiosità, tanto che la Rai, pochi giorni dopo, commissiona all’istituto Demoskopea un sondaggio, rivolto a 500 cittadini di sesso maschile residenti nella provincia di Varese e di età compresa tra i 15 e i 60 anni. A questo campione viene chiesto se sarebbe disposto a sottoporsi volontariamente al prelievo del DNA, al fine di confrontarlo con le tracce trovate sul corpo di Lidia Macchi. La risposta del campione è assolutamente favorevole. Di lì a poco alcuni reperti rinvenuti sulla scena del crimine e contenti materiale biologico vengono inviati in Inghilterra, proprio nel laboratorio di Abingdon guidato da Alec Jeffreys. I risultati arriveranno a fine giugno 1988, ma Enzo Tortora non farà in tempo a conoscerli: un mese prima la malattia non gli aveva lasciato scampo, ennesima beffa di un destino che si è accanito nei confronti di una persona perbene.

I risultati, ad ogni modo, sono negativi: per le tecniche dell’epoca il materiale organico estratto dai reperti è troppo esiguo e deteriorato, di conseguenza non è possibile alcuna comparazione. Fallisce così il primo tentativo di utilizzare la prova del DNA in un’indagine in Italia, ma ormai le porte della genetica forense si sono spalancate: sono evidenti, infatti, le potenzialità di questa nuova tecnica, anche se molta strada dovrà ancora fare per migliorarsi e affermarsi.

Ad oggi quella DNA molto spesso non è una semplice prova, ma la prova regina, quella più discussa nelle aule dei tribunali e nei salotti televisivi. Sono noti i casi, soprattutto recenti, in cui viene messa in discussione, perché talvolta le viene dato talmente tanto spazio da mettere quasi all’angolo l’indagine vecchio stile, quella basata sull’intuizione dell’investigatore, sulla testimonianza e sulla ricostruzione logica dei fatti. È il prezzo da pagare quando si hanno tutti i riflettori puntati addosso. Ma il DNA non sbaglia mai e ne esce sempre vincitore. A sbagliare può essere solo l’uomo, che non potrà mai competere con la perfezione e la precisione che invece caratterizzano il suo codice genetico.

Immagine: Paul Klee, Siebzehn, irr, 1923. Crediti: Kunstmuseum Basel, Basilea, attraverso sammlungonline.kunstmuseumbasel.ch

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