Senza la conferenza di Bandung (18-24 aprile 1955) con buona probabilità non ci sarebbe stata, di certo non nelle proporzioni che assunse, la crisi di Suez, ovvero il disperato tentativo di Francia e Gran Bretagna di attaccarsi con le unghie e con i denti ad una posizione di supremazia nei confronti di altri Paesi che non avevano più da almeno vent’anni. Senza la crisi di Suez, a sua volta, non ci sarebbe stata l’Unione Europea, ovvero la reazione in fretta e furia al movimento anti-imperialista e anti-colonialista mondiale che minacciava di riuscire in quello in cui la rivoluzione bolscevica aveva fallito quarant’anni prima. Secondo il fu primo ministro belga Paul-Henri Spaak, tra i fautori più determinati del trattato di Roma, era il caso di attrezzarsi onde evitare di venir circondati (e sopraffatti) «da grandi masse di umanità indifferente o addirittura ostile nei nostri confronti», una buona sintesi di ciò che fu, alla radice, lo spirito europeo in quegli anni – e che sembra lungi dall’essersi dileguato. Joseph Luns, il ministro degli Esteri olandese rincarò la dose, sostenendo per parte sua che il trattato di Roma avrebbe da un lato assicurato prosperità e ricchezza al vecchio continente preservando al contempo «la continuazione della sua grande missione civilizzatrice». La conclusione più immediata di tutto ciò, nelle parole dell’affermato scrittore David Van Reybrouck, è che non fu «il pensiero postcoloniale, bensì quello tardocoloniale alla base dell’Europa» (p. 492).
Bandung si trova in Indonesia: tra i venti Paesi più vasti del mondo, ospita la più numerosa popolazione musulmana sul pianeta e – almeno prima della selvaggia repressione orchestrata dalla CIA – sede del terzo maggior partito comunista dopo quello dell’URSS e l’omologo cinese. Il cataclismico tsunami del 2004 ha costituito una sporadica parentesi in una coltre di silenzio che in Occidente continua a vigere nei riguardi di un Paese che, fosse solo in considerazione del fatto che ad oggi risulta tra i maggiori responsabili dell’inquinamento da plastiche del pianeta, dovrebbe essere al centro degli interessi di tutti, a partire dalla famigerata comunità internazionale. Tale disinteresse risulta ancora più insensato e miope non appena si tiene a mente che, nemmeno un decennio dopo Bandung ed esplicitamente nello spirito di quella conferenza, un decennio dopo trentaquattro Paesi africani avevano dichiarato l’indipendenza ed erano entrati nelle Nazioni Unite, la guerra d’Algeria infuriava e in risposta all’anticolonialismo dilagante gli Stati Uniti orchestrarono, anche in Indonesia, una serie di colpi di Stato ed omicidi politici (il più famoso di tutti, ma niente affatto l’unico, fu quello del Che Guevara) che forse arrestarono l’avanzata del comunismo – ma non in Vietnam – ma in compenso consegnarono metà del globo a dittatori che non avevano nulla da invidiare agli spettri che a Washington si pensava di combattere. Per quanto controintuitivo possa essere, per lo meno ai non addetti, non è assurdo affermare che il mondo contemporaneo si sia sviluppato (anche) lungo le coste e nelle foreste dell’Indonesia.
Revolusi, da cui la citazione di apertura è tratta, è il frutto di oltre cinque anni di ricerca mediante il quale il belga David Van Reybrouck (già acclamato autore dell’eccellente Congo) si propone di portare all’attenzione del grande pubblico la storia di come l’Indonesia sia divenuta indipendente: nel fare ciò, egli inoltre mirabilmente illustra come mai non sia più possibile parlare di storia del ‘900 prendendo in considerazione il Sudest asiatico, se tutto va bene, solo nel contesto della guerra del Pacifico per poi, quando si è fortunati, saltare direttamente al Vietnam (con tanti saluti alla resistenza cinese che in parte ispirò e in parte prese slancio dalla guerriglia indonesiana durante il terribile periodo dell’occupazione giapponese).
La mole del volume è imponente e la quantità di dati, talvolta estremamente minuti, può apparire soverchiante. Tuttavia, lo stile dell’autore e la presenza capillare di testimonianze dirette, raccolte per di più in contesti di non immediata ovvietà (mai sottovalutare le case di riposo, siano esse in un quartiere bene di Amsterdam o disperse in un sobborgo di un villaggio nelle Molucche) ne fanno una lettura quantomai avvincente: il classico caso di un libro che, una volta preso in mano, si posa solo quando lo si è finito.
Van Reybrouck prende alla lontana l’oggetto della sua trattazione, partendo dalle origini più remote del popolamento dell’arcipelago indonesiano e procedendo ad ampie falcate fino al 1600, quando la compagnia olandese delle Indie orientali stabilì le proprie teste di ponte nell’area, come tanti altri prima di essa alla ricerca delle pregiate spezie locali. Da qui inizia la storia della società coloniale, efficacemente riassunta nella metafora del piroscafo postale con i suoi tre ponti (rigorosamente divisi per razza e classe sociale) le cui logiche predatorie e diseguaglianze crescenti – nonostante qualche timido tentativo di quello che pudicamente venne definito colonialismo etico – segnarono indelebilmente il corso della storia locale e olandese fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
È nel fuoco di quest’ultima, nel tumulto di un’occupazione brutale da parte di uno dei regimi fascisti più predatori del Novecento (il sedicente impero anticoloniale giapponese) che, paradossalmente, prese forma il movimento nazionalista ed indipendentista indonesiano, non da ultimo in virtù del fatto che da Tokyo si videro presto costretti a reclutare milizie native addestrandole a maneggiare un fucile. Con la fine della guerra, un’Olanda piagata da anni di occupazione nazista e in pieno dissesto economico dovette fare i conti con un Oltremare irriconoscibile: dopo quattro anni di trattative più o meno subdole, una violenza inaudita e le intromissioni allo stesso tempo interessate e goffe ai limiti del ridicolo, in ordine, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti e dell’ONU, portarono alla leggendaria Proklamasi di Sukarno prima, all’indipendenza poi e infine, come accennato, a Bandung, quando l’Indonesia divenne il perno del cosiddetto terzo mondo; un simbolo di libertà prima che la retorica nostrana ne facesse una sineddoche di sottosviluppo.
Revolusi appartiene alla categoria di quei libri che non si può, o quanto meno non si dovrebbe, non leggere. I motivi di ciò sono svariati. Tanto per cominciare, si tratta di un esempio mirabile di prosa saggistica sorretta da una padronanza della materia che nulla ha da invidiare ai più blasonati saggi accademici. In secondo luogo, il volume offre una prospettiva allo stesso tempo straniante e, ad una riflessione un minimo ponderata, vergognosamente ovvia, sulla storia di quello che siamo comodamente soliti pensare sia il Mondo nel corso di un secolo cruciale della storia contemporanea. Infine, perché costituisce un sobrio ed allo stesso tempo raggelante ulteriore tassello di ciò che il colonialismo europeo è stato e continua, in forme talvolta lugubremente immutate (l’olio di palma è un buon esempio) ad essere, spesso nell’ignoranza o nell’ostinata omertà di istituzioni – il governo, l’accademia, la società olandesi – che non perdono mai occasione di farsi paladine di valori, si dice, tipicamente occidentali come la libertà, l’uguaglianza e la democrazia.
Revolusi, volendo dirla in parole spicce, è la storia di ciò che abbiamo scelto di non essere, ma che possiamo ancora (presto forse dovremo) diventare.
David Van Reybrouck, Revolusi. L’Indonesia e la nascita del mondo moderno, traduzione di Chiara Beltrami Gottmer, Chiara Nardo, Franco Paris, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 624