Il virus contamina i corpi, ma anche le anime. Gli individui, ma anche le comunità. Ciò che le tiene in vita come il sangue e l’aria: la memoria culturale, la creatività, i paesaggi, il patrimonio artistico, le arti figurative, la danza, la musica, il teatro, l’opera, il pensiero filosofico e matematico, la ricerca scientifica, la letteratura, la storia. Sono le nostre coordinate, la terra su cui poggiamo i piedi: ma rischiamo di non pensarci abbastanza, tanto lo diamo per scontato. E in tempi come questi, scontato non è.

Viviamo, nella reclusione forzata delle nostre case, l’angoscia del vuoto: il dilatarsi dei tempi, il diradarsi dei volti, gli impegni cancellati dalle agende. Ma sperimentiamo anche, con una forza che forse solo in guerra si è avvertita, l’ansia e la speranza di un nuovo inizio. Di una ripartenza – questa la parola chiave. Progettare il futuro è l’unica difesa contro la morsa che ci stringe, è vero. Tuttavia, oggi possiamo (forse) sapere che cosa vorremmo che accadesse, ma nessuno al mondo sa quando potrà accadere davvero. Perciò ogni progetto prende i colori del sogno, più che quelli di una ferma profezia; della speranza, più che di un piano operativo. L’angoscia del vuoto e l’ansia della ripartenza fanno tutt’uno. Si sovrappongono fino a confondersi, paralizzando energie, frenando volontà, confinando idee entro incerte utopie.

Eppure fare progetti oggi, e senza aspettare domani, è assolutamente necessario. Si inseguono nei media le notizie sulle conseguenze economiche di questa pandemia: il calo della produttività, la disoccupazione alle stelle, il PIL che precipita e lo spread che sale. Lì e solo lì sembra battere il cuore dell’Europa, e del mondo. E la cultura? Forse chi ha riposto le speranze sul turismo di massa spera nella sua resurrezione, chi ha puntato sull’industria culturale non vede l’ora che si ricominci, come prima, a macinare mostre su mostre, ad affastellare iniziative d’ogni sorta senza il filtro della qualità. Altri, all’opposto, danno per scontato che da questo bagno di sangue usciremo rinnovati, cambiando registro e marciando felici verso un roseo futuro. Temo che abbiano torto gli uni e gli altri.

Nulla sarà come prima: certo non identico, ma non necessariamente migliore. Se di ripartenza vogliamo parlare, è tempo di raccogliere tutte le energie, stringere i denti, dimenticare i timori per la nostra salute individuale, trovare la forza di ragionare in termini di comunità. Recuperare quel che la nostra Costituzione ci ha donato, uno sguardo limpido e profetico rivolto nello stesso istante al passato e al futuro. Poiché non varrebbe la pena vivere un presente che non si nutra della forza che viene dal passato, e che non miri a costruire un futuro migliore non solo per noi stessi, ma per le generazioni che verranno.

«La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»: questo l’articolo 9 della Costituzione, formulazione felicissima che si ispira a due precedenti storici, la Costituzione tedesca del 1919 e quella spagnola del 1932. Li supera d’un balzo per sintesi ed efficacia, ma ha con loro qualcosa in comune: la Repubblica di Weimar all’indomani della bruciante sconfitta nella Prima guerra mondiale, la Spagna alla vigila di una guerra civile, la Repubblica Italiana nata sulle macerie della guerra reagirono agli eventi ponendo cultura, patrimonio, paesaggio, ricerca al centro della propria missione. Nei singoli come nelle comunità il trauma provoca una drammatica pausa di riflessione, genera consapevolezza, innesca meccanismi di difesa, costringe a immaginare un futuro migliore del presente che ci opprime. Come ha scritto Orhan Pamuk, «A quel che pare non è possibile scoprire il segreto delle cose senza avere avuto il cuore spezzato. Dobbiamo umilmente sottometterci a questa definitiva, segreta verità».

Oggi abbiamo il cuore spezzato per i nostri simili che continuano a morire e per l’insidia che ci minaccia, ma dobbiamo averlo anche per il tramonto delle istituzioni culturali già da tempo marginalizzate da un cieco economicismo, a cui è ora di reagire prima che sia troppo tardi. Vogliono convincerci che i musei o i teatri debbano reggersi sugli introiti di cassa: e adesso che non ce ne sono? Come si farà ricerca a biblioteche chiuse? Che pensieri innescherà nei giovani la scuola, se immiserita a contatti virtuali via web? Se vogliamo davvero pensare a una seria ripartenza, cominciamo da domande di fondo come queste. La scuola deve educare i cittadini del futuro a pensare criticamente o allevare ossequienti esecutori dell’ordine costituito? Il paesaggio è vivaio comune di bellezza e di memorie o terreno di caccia per speculatori edilizi? Nel Paese dove è nata l’opera lirica, la faremo morire pretendendo che si autofinanzi? Vivremo i nostri centri storici, fra i più preziosi al mondo, come serbatoi di memoria culturale o come cadaveri da spolpare? Penseremo agli archivi come depositi di polvere, o come riserva aurea di mille scoperte a venire? Vedremo le biblioteche pubbliche come ingombrante eredità del passato, o le incrementeremo comprando libri ogni giorno (anche mentre sono chiuse)? Sapremo intraprendere nuove strade per la ricerca scientifica, tecnologica, umanistica, o dovremo costringere all’esilio una parte importante dei nostri studiosi migliori?

Se di ripartenza vogliamo parlare, non cominciamo col figurarci l’Italia dopo la crisi come il più possibile uguale al “prima”. Assicuriamo continuità alle istituzioni e lavoro a chi deve garantirne l’efficacia, investiamo sul permanente e non sull’effimero. Progettiamo l’Italia e l’Europa che vorremmo fra cinque, dieci, vent’anni, ma troviamo da subito le parole per dirlo. Per argomentare la centralità della cultura e delle istituzioni culturali mettendo a fuoco la loro funzione per la vita civile, per l’economia, per la salute della comunità. Per innescare da subito una vera “ripartenza” che richiederà tempi lunghi.

Immagine: Galleria di Diana, Reggia di Venaria, Torino (febbraio 2018). Crediti: Shutterstock.com

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