Intervista a Luciano Canfora

In questo periodo di pandemia, in cui ognuno di noi ha anche rinunciato ad alcune libertà individuali, assistiamo al manifestarsi di una fragilità della cultura

Non mi stupisce per nulla, anche durante l’ultima guerra mondiale è successa la stessa cosa, per cause diverse ma non meno gravi e impedienti. Mi sorprende che quasi quotidianamente si faccia il catalogo delle cose che non possono funzionare come prima. È talmente ovvio che mi sorprende la sorpresa. Quasi tautologica. Si inventano le cose da lontano, da lontano forse prenderemo anche il caffè.

Si parla anche spesso di una fragilità della scienza. Cosa non ha funzionato?

Se per scienza intendiamo la medicina dobbiamo ricordare che, purtroppo, non parliamo di una scienza esatta. È una disciplina empirica nella quale si cerca di introdurre elementi di oggettività. Una volta c’erano i medici di famiglia che avevano una potenza diagnostica derivante dall’infinita esperienza. Tutto questo non c’è più, sostituito dal continuo ricorso alle diagnosi strumentali. La scienza è un’altra cosa. La medicina arranca, ed è anche umano che sia così. Un medico deve guardare l’interno non potendo che guardare l’esterno, quello che Kant ‒ in filosofia ‒ definiva come la “cosa in sé”: si vedono solo i fenomeni poiché la cosa in sé non si vede mai. Si tenta di vedere l’invisibile che è racchiuso dentro il corpo umano: un lavoro straordinariamente difficile, essenzialmente diagnostico. Dopo di che non parlerei di fallimento ma di una sfida inedita davanti alla quale si è trovata una disciplina che non ha mai potuto conseguire l’oggettività.

La fruizione della cultura avviene con modalità diverse, piattaforme, lezioni a distanza, solo per fare qualche esempio. Un limite o uno strumento in più?

Si fa tantissima retorica su questo; anche i cosiddetti pensatori che si alternano in TV teorizzano che dal male viene il bene, magnificano il valore della didattica a distanza. È chiaro ‒ diciamocelo ‒ che sono tutte sciocchezze. La didattica a distanza è una cosa mostruosa che non serve a nulla se non a riempire il tempo. Discorso diverso per i musei: una fruizione di immagini, repertori, materiale illustrativo a distanza si può realizzare. Per teatro e cinema è impossibile. La cosa buffa è che si tratta palesemente di un disagio del quale liberarsi quanto prima, mentre c’è chi invece teorizza che si sia aperta una prateria di cose meravigliose. Credo che ‒ se non altro per ragioni anagrafiche ‒ non godrò di questa “gioia”.

La cultura è un bene comune che appartiene a tutti, non solo all’Italia. Per questo il direttore della Treccani, Massimo Bray__, ha proposto la costituzione di un Fondo Europeo che sostenga e rilanci la cultura

Un’idea ottima, non solo per questa fase ma soprattutto come rilancio del patrimonio culturale, che troverà, però, probabilmente l’opposizione di Mark Rutte (primo ministro olandese, ndr). Ce ne faremo una ragione e vedremo chi vince. Bray fa bene a battersi per questo, è la cosa giusta. E, ovviamente, tifo per lui.

Il portale Treccani.it sta registrando in queste settimane un numero altissimo di visite. Perché secondo lei?

Sono numeri che confortano e, aggiungo, per fortuna le persone si rivolgono alla Treccani! È una fonte autorevole. Se le persone si limitassero solo all’informazione che viene da TV e giornali sicuramente ne ricaverebbero informazioni inesatte, imprecise, parziali. D’altra parte, sappiamo che si può accedere a tutte le opere dell’Enciclopedia, anche le più remote nel tempo, grazie alla mediazione informatica. È un baluardo dell’informazione scientifica del nostro Paese. Louise-Noëlle Malclès, forse la più grande bibliografa francese, diceva sempre che ‒ prima di qualsiasi altra fonte ‒ si documentava sull’Enciclopedia Italiana.

Sono tante le figure del mondo della cultura in difficoltà a causa della pandemia. Quali provvedimenti secondo lei possono essere d’aiuto?

Sono realtà molto diverse: ci sono gli attori, i cantanti lirici, il cinema, il teatro. C’è, tuttavia, tutto un settore, cioè scuola, biblioteche, università, per il quale il rimedio c’è. Perché i nostri ragazzi non possono tornare a scuola hic et nunc? Perché i nostri istituti pagano i danni delle riforme degli ultimi anni, soprattutto della riforma Gelmini, che ha allargato il numero di studenti per classe rendendo difficile l’insegnamento. Bisogna abbandonare la formula delle classi pollaio e arrivare a classi più piccole e a una didattica migliore. Bisognerebbe quindi invertire una tendenza nel bilancio dello Stato, investire nell’edilizia scolastica, non solo nell’assunzione di nuovi docenti. Queste sono realtà in cui si può portare rimedio, volendolo. Purtroppo abbiamo il vezzo orribile, in questo Paese, di considerare il comparto scuola-biblioteche-università come una Cenerentola. Compriamo F15 che non useremo mai e ci disinteressiamo, invece, dell’istruzione, che è un problema capitale.

Ma non c’è solo l’istruzione…

Per il cinema e il teatro, ma direi soprattutto per quest’ultimo, il problema è enorme. Il teatro è insostituibile perché è un unicum. Il regista, gli attori, il pubblico sono un’unica comunità. Un grande autore come Bertolt Brecht, il teorizzatore del teatro epico dove il pubblico è coinvolto nella rappresentazione, avrebbe vita dura in questa situazione. Più che una bacchetta magica ci vorrebbe buon senso, ma soprattutto senso dello Stato.

Immagine: La Galleria degli Uffizi, Firenze. Crediti: Foto di dalibro da Pixabay

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