Il De aedificiis di Procopio di Cesarea è una impegnatissima – e svergognata – serenata volta a celebrare il programma urbanistico dell’imperatore Giustiniano (circa 482-565 d.C.), il cui regno lo stesso Procopio attraversò in gran parte e per il quale egli fornisce una tra le fonti più autorevoli, non fosse che per la mole dell’opera tradita. Tra basiliche – con Santa Sofia in qualità di maggiore, ma tutt’altro che isolata, iniziativa –, statue equestri monumentali (per lo più di se stesso), acquedotti e palazzi di ogni sorta, la prosa di Procopio si arrampica verso altezze inesplorate, dandosi un gran da fare nel descrivere un monarca illuminato, scelto e guidato da Dio in un momento di enormi difficoltà, con la fedele e non meno pia consorte immancabilmente al fianco, per ristabilire le sorti del grande impero universale dei romani – come i bizantini continuarono a chiamarsi e a concepirsi fino all’arrivo di Mehmet II – e traghettarlo verso una nuova era di gloria e prosperità: redeunt Saturnia regna, iam nova progenies caelo demittitur alto.

Un’eco di tutto questo è ancora chiaramente avvertibile mezzo millennio dopo nel canto VI del Paradiso dantesco: qui, dove albergano spiriti sì magni e degni di salvazione, ma che pur sempre hanno rivolto la gran parte della loro attenzione alla gloria terrena più che all’amore dell’Altissimo, colui che agli occhi del poeta – e non solo ai suoi – doveva apparire come l’ultimo grande rappresentante della tradizione imperiale romana e del suo afflato universale (esso stesso frutto, per quanto absconditus, dell’ispirazione divina) viene celebrato in quanto supremo legislatore, con il che si implica longa manus terrena di un ordine celeste che è compito degli uomini riconoscere e difendere. Giustiniano stesso (quello storico) doveva aver concepito la propria funzione canonica in maniera non troppo diversa se si pensa alla determinazione con la quale perseguì l’approntamento di quel Codex che è forse il suo lascito più vistoso: di più, l’importanza dell’attività di nomoteta (e il modello giustinianeo) nella storia degli imperi successivi risalta in tutta la sua evidenza una volta che si consideri che il sultano Süleyman, in Occidente noto come il Magnifico, tra la sua gente passò alla storia come Kanuni.

L’agiografia di qui sopra, come detto in buona parte frutto delle cure di Procopio, incorre tuttavia in alcuni problemi di un qualche imbarazzo non appena ci si ricordi che il medesimo Procopio chiude la narrazione degli otto libri delle Guerre (persiana, gotica e vandalica, con lui stesso in più casi testimone oculare e che costituisce il fulcro di ciò che è noto in merito al mondo in cui Giustiniano visse e operò) a tinte a dir poco fosche, tracciando un bilancio conclusivo della reconquista del suo celebrato patrono che definire spietato sarebbe fargli un complimento. L’ultima frase dell’opera (4.27.52) suona come segue: «E così fu che quanti tra gli abitanti d’Africa che riuscirono a sopravvivere, benché fossero ormai pochi e miserabilmente poveri, alla fine e al prezzo di grandi sofferenze trovarono una qualche misura di pace».

Peggio ancora, nella celeberrima Storia segreta, il peana del De aedificiis si trasforma in una campagna di fango con pochi precedenti nella storia, antica e moderna. L’unto del Signore diviene un diabolico pervertito, e analoga sorte tocca al celebre generale Belisario, per gran parte artefice delle campagne giustinianee nonché da Procopio accuratamente scagionato nelle Guerre ogniqualvolta le circostanze lascino dubitare il lettore dell’opportunità di questa o quella scelta tattica. Non fosse tutto ciò sufficiente, le due personalità maggiormente influenti dell’impero si rivelano poco più di due burattini nelle mani delle rispettive mogli, con Teodora, l’avvenentissima attrice che sposò Giustiniano dopo il varo, da parte del di lui zio, di una serie di leggi ad personam da far invidia a tempi migliori, nel ruolo di una ninfomane assassina.

Se questo è lo stato delle nostre fonti più autorevoli, che fare del regno di un uomo che si estese per quasi un quarantennio, fu testimone di una serie di campagne militari quali Bisanzio non conosceva da parecchio tempo, dell’estinzione, stupefacente, del regno vandalo e della riedificazione di un impero dalle ambizioni mediterranee (il che, per l’epoca, tanto valeva a dire globali) salvo poi precipitare nel giro di un paio di decenni, prima in un micidiale cinquantennio di violentissimi scontri con l’Iran sasanide ed infine collassare al cospetto delle truppe califfali? Si tratta, lo si capisce, di una questione che ha affaccendato storici e moralisti (ancora una volta, non a caso, a partire da Procopio) per un millennio e mezzo. Negli ultimi tempi, sembra essersi fatta largo tra gli studiosi una valutazione tutto sommato critica di un regime percepito come guidato da un avventuriero che, per vanagloria e accecato dalla fata Morgana dell’eredità simbolica di Roma (quella sul Tevere, non la capitale dove egli stesso risiedeva) avrebbe sforzato le risorse dei propri domini fino al punto di rottura, lasciando ai propri successori un’eredità ingestibile e le finanze pubbliche in bancarotta, con l’impero ormai pronto per essere travolto, con l’eccezione di non poco conto della capitale, dalle armate dei califfi rāšidūn.

Roma risorta. L’impero dopo la caduta dell’autorevole storico Peter Heather si propone di affrontare da capo quest’annosa questione attraverso una scrupolosa analisi (che non impedisce una narrazione estremamente piacevole e mai priva di un umorismo tipicamente anglosassone troppo spesso rifuggita da una pudica letteratura accademica) delle fonti a disposizione, dall’ineludibile Procopio all’archeologia e dalla numismatica agli apporti più recenti e innovativi delle scienze dure. Il risultato è un affresco imponente di quasi tre secoli di storia euroasiatica (dalla Gran Bretagna in cui Costantino venne acclamato imperatore all’Iran orientale nelle cui lande trovò la morte Yazdegerd III) al centro del quale troneggia, come in una delle sue statue, la carriera politica di Giustiniano, dalla gavetta nell’esercito agli intrighi di corte fino alla porpora e alla restauratio imperii.

Articolata su undici capitoli per un totale di poco più di trecento pagine (accompagnate da una cronologia e un utile glossario), la trattazione di Heather prende le mosse dalla costituzione dell’Impero d’Oriente all’indomani dei tumulti del III secolo per prendere in esame la cultura politica alla base della società, non solo curtense, del mondo di Giustiniano (cap. 1), la trasformazione del sistema fiscale e dell’esercito conseguenti all’avvento dell’Impero sasanide e della sua politica di attivismo bellico (cap. 2) ed entra poi nel vivo (cap. 3) delle manovre di palazzo che elevarono al soglio imperiale, nella figura di Anastasio I, un anziano ma tutt’altro che sprovveduto burocrate, il cui lunghissimo regno, e gli intrighi che ne animarono la fine, fornisce il retroterra in mancanza del quale i futuri atteggiamenti e le scelte della successiva dinastia balcanica, di cui Giustiniano è di gran lunga l’esponente più noto e che costituiscono il corpo del saggio, non sono comprensibili.

In un mondo segnato dalla violenza e da una cultura politica che da tempo immemorabile faceva della vittoria il simbolo dell’autorità legittima, per di più da due secoli e mezzo impregnato di connotazioni escatologiche, Heather spiega la politica di Giustiniano alla luce di una costante necessità di provare le proprie credenziali ad un pubblico, non solo di nobili senatori, pronto a interpretare un successo come conferma della grazia divina e un fallimento quale mancanza della medesima. La gestione del potere assoluto, in altre parole, dispensa sì dalle lungaggini del dibattito parlamentare, ma non per questo può essere ritenuta una professione non usurante. Giustiniano mosse guerra dalla Libia alla Spagna e dalla Mesopotamia alla Bulgaria non in virtù di una non meglio precisata strategia geopolitica o sulla scorta di un’ideale donchisciottesco delle glorie del bel tempo antico, ma sotto la pressione di strettissime contingenze tanto interne (la micidiale rivolta di Nika, che per un soffio non gli costò l’impero, e probabilmente la testa) quanto esterne, su tutte una costellazione geopolitica in costante mutamento su di uno scacchiere che secoli di dominio imperiale avevano esteso ben al di là del limes, come le storie dei cosiddetti popoli barbari, da Alarico al qaganato avaro e turcico ben dimostrano (e a cui nel volume è meritoriamente dedicato lo spazio che esse meritano).

Forse poco sorprendentemente, ma in maniera assai istruttiva, Roma risorta fa giustizia tanto del servo encomio quanto del codardo oltraggio (la Storia segreta si chiama così per un motivo) che sino ad oggi hanno oscurato non solo la figura di Giustiniano, per non parlare di sua moglie o del mestiere dell’attrice, ma più ancora quella del suo tempo, restituendo al lettore in tutta la sua vivida complessità l’affresco di un mondo (quello dell’evo tardoantico) e di un’entità politica (l’impero, bizantino come sasanide, e per certi aspetti lo stesso califfato), che se la distanza temporale fa a prima vista apparire ineluttabilmente trascorsi, rivelano a più attento scrutinio alcune intriganti, e inquietanti, similitudini con le contorsioni del nostro presente, e da cui dunque è ancora possibile, se avvicinati con giudizio, apprendere molto.

Peter Heather, Roma risorta. L’impero dopo la caduta, traduzione di Albertine Cerutti, Milano, Garzanti, 2021, pp. 504

Immagine: L’imperatore Giustiniano, mosaico della basilica di San Vitale, Ravenna. Crediti: Petar Milošević [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

Argomenti

#sasanide#impero#Santa Sofia#Roma