Kansaoya, nell’escatologia zoroastriana, è il nome del mitico lacus orientale dove, custodito da infinite creature angeliche, le Fravashi, viene vegliato il seme del defunto profeta Zarathustra. Bagnandosi qui la vergine Eredat Fedhri verrà miracolosamente fecondata per poi dare vita all’atteso Salvatore Saoshyant, colui che – incoronato di stelle – alla fine dei giorni purificherà il mondo dai malefici dei demoni e degli uomini, ripristinando la giustizia e resuscitando i morti.

Saveh, come riporta lo storico e teologo persiano Muhammad ibn Jarir al-Tabari (839-923 d.C.) nella sua Ta’rikh al-rusul wa al-muluk (Storia dei Profeti e dei Re), aveva anch’essa un tempo un lago (buhayra), svanito in una notte sola risucchiato dalla terra. Era quella del 570 una notte speciale, i segni miracolosi in Persia si moltiplicarono, nella quale a Mecca nacque il Profeta Muhammad, il Sigillo, colui che secondo la tradizione islamica ha chiuso il ciclo della Profezia.

Di quel lago ora in questa cittadina a sud-ovest dell’attuale Teheran, nella provincia di Markazi, non v’è più traccia, mentre risuona la chiamata alla preghiera da uno dei più antichi minareti selgiuchidi rimasti in Iran, che proprio a Saveh si può ammirare in tutta la sua magnificenza geometrica e che, costruito e decorato in mattoni cotti, ci ripete in lettere cufiche che Muhammad è l’ultimo Profeta, «la nabiy ba’d Muhammad».

Quella che fu una città importante e florida sulla grande via della seta e come ricorda lo storico Robin Lane Fox un «grande centro dell’astronomia islamica» – sebbene devastata dalla furia mongola che ne bruciò, secondo quanto ci dice l’erudito persiano Zakariyya’ ibn Muhammad al-Qazwini (1203-1283), la preziosa biblioteca astronomica, inclusi diversi strumenti scientifici – mantiene tuttora alcune vestigia dell’antico splendore.

Più di un importante evento nel grande libro della Storia viene connesso alla città di Saveh, affermò il Baron C.A. de Bode (1806-1887) nei suoi Travels in Luristan and Arabistan, pubblicati nel 1845. A questo centro è legata infatti anche un’altra meravigliosa storia sacra, che ci giunge dal Milione di Marco Polo, il quale visitò la città nel suo pellegrinare per la nobile e grande provincia di Persia.

Qui, a Saba, il mercante veneziano non solo raccolse – primo e unico − la leggenda orientale che voleva i re Magi come originari del luogo, non delle Indie come invece dirà nell’Historia trium regum l’agiografo carmelitano Giovanni di Hildesheim (m. 1375). Ma vide nel 1272 anche le tombe di Beltasar, Gaspar e Melquior, i cui corpi ammirò ci dice, ancora adorni di barba e capelli in una bella sepoltura.

Una storia che ci porta alla nascita narrataci dal Vangelo di Matteo, quella di un bambino che avrebbe salvato il mondo dai suoi peccati, quell’’Isa ibn Maryam (Gesù figlio di Maria) che l’islam stesso riconosce come Profeta nobile e fondamentale e il Corano (III, 45) dichiara essere «l’eminente in questo mondo e nell’altro». Colui che avrebbe annunciato a sua volta l’arrivo del Profeta dell’islam e che si farà annunciatore del Giudizio finale quando ritorner__à dal cielo in terra a Damasco, sulla cupola della grande moschea omayyade.

Da Saveh i Magi erano partiti dopo aver avvistato la stella ed erano arrivati a Gerusalemme, per giungere fino al Betlemme, portando come ci narra Marco Polo le offerte dell’oro «per sapere s’era signore terreno», incenso «per sapere s’era idio» e mirra «per sapere se era eternale». Per ricevere in cambio un dono, una pietra, la quale gettata in un pozzo farà scaturire una fiamma che verrà adorata, segno evidente del fuoco zoroastriano, di un culto ancora attivo nella regione quando Polo vi giunse nel XIII secolo.

Ispirati da un sogno – fuggendo alla malvagità e all’ansia tutta politica del re Erode – i Magi erano infine ritornati fino in Persia per concludervi la loro esperienza terrena.

Rifiutandosi di comunicare a Erode il luogo esatto del Bambino-Dio, e dunque salvandolo, provocarono la sua grande ira, delusione che trovò esito nella strage degli innocenti.

Circa un secolo prima però di Marco Polo, alla conquista di Milano, nel 1162, da parte di Federico Barbarossa, nella basilica di S. Eustorgio erano già stati rinvenuti in un sarcofago, ora vuoto, i corpi di tre Magi, che in seguito il suo sagace ministro Rainaldo di Dassel aveva fatto traslare nella cattedrale di Colonia.

Vi erano giunti proprio dall’Oriente, secondo la tradizione da Costantinopoli, dopo essere stati scovati in Terra Santa da s. Elena.

Come riassumeva efficacemente Umberto Eco la questione, «pellegrini in vita, i tre sono diventati vagabondi post mortem, generando i loro molteplici cenotafi».

Attualmente nel cenotafio orientale di Saveh non v’è segno alcuno invece dei sapienti persiani giunti fino a Betlemme, come se anch’essi, allo stesso modo del lago antico, fossero definitivamente scomparsi.

Seppure priva del sogno dei Magi, Saveh possiede ancora oggi le sue preziose melagrane, che influenzano profondamente anche l’iconografia dei suoi tappeti. E che un mito, questo di origine greca, ci disse nascere dal sangue di un altro fanciullo, Dioniso, il dio dell’ebbrezza fatto a pezzi dalla furia dei Titani, ispirati a loro volta dalla terribile gelosia di Era, e nato la seconda volta da Zeus.

Ancora da Saveh era partito verso Occidente, Siria ed Egitto, il mistico Jamal al-Din Sawi (m. 1232), fondatore dell’anticonformista confraternita sufi della Qalandariyya, che attraverso la povertà, la mendicità e l’erranza perpetua invitava a morire a questo mondo per rinascere alla vita divina.

Nascita e morte dunque, fine e inizio, intrinsecamente connessi, inscindibili frammenti di un mosaico le cui tessere – zoroastriane, cristiane, islamiche – compongono quello della Storia della Profezia.

Così ci appare il mistero nascosto di Saveh, parafrasando le parole ispirate di Salomone nel Cantico dei Cantici, «come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il velo».

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