Vorrei cominciare la nostra conversazione parlando di Atti relativi alla morte di Raymond Roussel_, che Adelphi ha ripubblicato l'anno scorso. Un libro anomalo, oggi si direbbe "ibrido": una fitta narrazione sulla morte dello scrittore Raymond Roussel raccontata attraverso "gli atti" di una sbrigativa inchiesta di polizia._

Che cosa cerca di fare Sciascia, quando lo scrive? Continua a lavorare sulla struttura del racconto poliziesco come nelle sue prime opere narrative? Oppure cerca di sperimentare un percorso inesplorato di narrazione ibrida, un percorso che forse lo condurrà, nel 1978, alla forma da dare all'Affaire Moro?

Quel piccolo libro, scritto nel 1970 e che prima di uscire in volume stava tutto in due pagine del «Mondo» di Pannunzio, è effettivamente uno spartiacque nella produzione di Sciascia: perché l’intento era quello di chiarire una vicenda che gli appariva misteriosa, ancor più dopo aver letto gli Atti relativi prodotti dagli inquirenti, ma l’esito fu di apportare nuovi dubbi, nuovi misteri. Quest’idea, che aprirà la strada alla stagione delle scritture innovative di Sciascia degli anni Settanta (di cui l’Affaire Moro si può considerare il vertice, o almeno l’approdo ultimo), contrasta con l’immagine di vulgata di uno Sciascia ‘illuminista’ che è stata ripetuta anche negli interventi stimolati dal Centenario.

Beninteso, l’uso della ragione, l’opera di demistificazione degli inganni, la fiducia nelle idee, la stessa linearità della sua scrittura, sono caratteristiche effettive e documentabili, senza le quali non si inquadrerebbe correttamente lo Sciascia degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma verso la fine di quest’ultimo decennio il paradigma entra in crisi, perché cambia in modo irreversibile il quadro politico e sociale che lo scrittore metteva in prospettiva rispetto alla sua azione intellettuale. E l’atteggiamento di sollevare dubbi, di porsi domande che altri non si facevano, di osservare fatti su cui si usava passare uno sguardo distratto diventa un modus operandi pervasivo, sebbene si possano individuare anticipazioni del ‘paradigma del dubbio’ e permanenze dell’atteggiamento ‘illuminista’ in ogni momento della carriera dello scrittore.

Così, anche le storie ispirate ai moduli del romanzo poliziesco (Il contesto e Todo modo, e su piani diversi anche gli Atti relativi e La scomparsa di Majorana), sono prive del rassicurante lieto fine tipico del giallo classico; i romanzi degli anni Sessanta (Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, e su un piano diverso Morte dell’inquisitore), e si chiudono su un mistero, che il lettore deve tentare di sciogliere sulla base degli elementi abilmente sparsi nel libro stesso, e su cui deve soprattutto riflettere, per cercare di cogliere, insieme con lo scrittore, il vero senso e il loro valore generalizzante.

Questo primo tema mi porta a farle un'altra domanda. In che modo Sciascia era legato al genere giallo? Mi spiego meglio: sappiamo che Sciascia aveva riservato particolare attenzione per la narrazione poliziesca, ma come se ne serviva? Era per lui, come per il suo omologo svizzero Dürrenmatt, il tentativo di scrivere con la sua opera "un requiem per il giallo"? Oppure se ne disinteressava, in fondo, della natura del giallo, riflettendo più che altro sulle potenzialità della scrittura come "indagine"?

A Sciascia non interessava fare della metaletteratura, ovvero una letteratura che riflette su se stessa, mettendo in evidenza i suoi meccanismi; riteneva piuttosto che la letteratura potesse offrire la più affidabile chiave interpretativa della realtà. E il giallo, del quale cercò di evidenziare le potenzialità letterarie, tanto con l’attività critica, quanto con la sua stessa produzione, non faceva eccezione in questo senso: è letteratura, non mero intrattenimento, almeno per quanto concerne le creazioni di Simenon, Agatha Christie, Conan Doyle, o anche il Rex Stout di Nero Wolfe e l'Erle Stanley Gardner di Perry Mason, e in quanto tale è «la più assoluta forma che la verità possa assumere», come scrisse in una nota di Nero su nero. In questo senso, credo che a lungo il suo utilizzo del giallo sia stato diverso da quello di Dürrenmatt, e che le riflessioni dello scrittore svizzero siano emerse in particolare nella estrema produzione narrativa sciasciana, in particolare nel Cavaliere e la morte, come peraltro conferma uno studio di Mark Chu dedicato al rapporto fra i due scrittori, pubblicato negli Atti del convegno di Ascona dedicato nel 1993 a Sciascia scrittore europeo (pubblicato l’anno successivo dalle edizioni Birkhäuser). Ma con il Cavaliere e la morte siamo ormai nel 1988, lontani dal momento della fruizione quasi compulsiva dei gialli, che avrebbero portato Sciascia a stendere delle sintesi sul genere (che ora si possono leggere in Il metodo di Maigret) e a progettarne di più ampie e sistematiche, come un progetto di storia del romanzo poliziesco per Feltrinelli (a cui accennò a Calvino in una lettera dell’aprile 1957) che non ebbe esito.

Risponderei positivamente all’ultima domanda: in effetti, l’intera produzione sciasciana può essere definita nel suo complesso un’indagine, o meglio un’inquisizione (nel senso in cui usava il termine Jorge Luis Borges, che intitolò Inquisiciones la sua prima raccolta di saggi, riprendendo il titolo più tardi in Otras inquisiciones). In questo senso i libri che mettono al centro un delitto e un investigatore, i sei romanzi che tutti conoscono, sono solo una delle forme letterarie assunte dall’inquisizione sciasciana.

Per il centenario sciasciano è stato pubblicato un libro importante, «Questo non è un racconto. Scritti per il cinema e sul cinema». Nella letteratura italiana degli ultimi anni si sono studiati molto gli effetti del cinema e delle serie tv sulla narrazione. Pensiamo alla Letteratura Cannibale, ai primi romanzi di Niccolò Ammaniti. E in questo caso gli effetti non riguardano solo gli argomenti, i temi dei libri, ma soprattutto lo stile, la struttura dei romanzi.

Retrospettivamente, e contestualizzandolo nella sua epoca, vorrei chiederle se il cinema degli anni Trenta/Quaranta ha avuto un effetto di questo tipo sull'opera sciasciana; vorrei chiederle, cioè, se il linguaggio del cinema ha influito, ha avuto un ruolo sulla scrittura di Sciascia.

Direi di sì, almeno con riferimento ai suoi romanzi degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, fino a Il contesto (con Todo modo le cose cambiano). Perché certe scene d’assieme, e penso alla scena iniziale del Giorno della civetta, alla sua stessa costruzione per sequenze in cui il racconto sequenziale della vicenda è alternato a momenti in cui agiscono vari personaggi di cui bisogna intuire la funzione, ai dialoghi, evidenziano quell’influsso. Dalla metà degli anni Settanta, ma già per certi aspetti in Todo modo, la scrittura sciasciana rinuncia alla narratività romanzesca, e con questa alle soluzioni che gli venivano dalla consuetudine col cinema, per un genere diverso, quello del racconto-inchiesta che mi pare non debba nulla alla settima arte.

Per sfatare un'incomprensibile aura di misoginia che di tanto in tanto ruota attorno a Sciascia. Potrei chiederle di parlarci dell'attenzione per i personaggi femminili che Sciascia dedica nella scrittura dei suoi soggetti cinematografici?

Parlare di misoginia per Sciascia è effettivamente assurdo, ma è stato possibile evocarla nel momento in cui le rivendicazioni del movimento femminista, per lo più condivisibili e apportatrici di civiltà in una società retrograda come quella italiana del secondo dopoguerra, hanno preso la mano e si è montata una polemica a partire dall’idea, sostenuta convintamente dallo scrittore, che nella società siciliana vigesse un matriarcato mascherato da sottomissione formale all’uomo. Ma al di là della polemica contingente, basta guardare senza pregiudizi ai personaggi femminili sciasciani per sfatare quest’idea. Nei soggetti cinematografici recuperati in «Questo non è un racconto» compaiono due donne: la prima è ispirata a Serafina Battaglia, che negli anni Sessanta sostenne in tribunale le accuse contro gli assassini del compagno e del figlio. Ma è la seconda il personaggio letterariamente più interessante, perché se per la storia della Battaglia destinata a Carlo Lizzani, Sciascia era vincolato ai dati di realtà (sui quali aveva realizzato anche una sorta di ‘cronachetta’, ancora inedita, che ricostruisce la sua vicenda), per la ragazza liceale che assiste a un omicidio e subisce intense pressioni ambientali affinché non cada nella tentazione di rivelare agli inquirenti ciò che ha visto, fu libero di esercitare la fantasia. Ne è venuta fuori una riflessione sui codici di comportamento sociali e le loro infrazioni che spiegano le ragioni per cui era così difficile esercitare un’efficace azione di contrasto alla mafia: i fatti erano noti e i responsabili individuabili, ma gli indizi non arrivavano a strutturarsi in prove, i testimoni non parlavano, e quando si riusciva a mettere insieme un quadro probatorio, questo non superava la prova del processo. Che Sciascia affidasse proprio a una giovane donna acculturata il ruolo di scardinare il sistema che consentiva alla mafia di prosperare incontrastata mi pare altamente significativo.

Ultima domanda. Per Sciascia, come lui stesso scrive e dice più volte, da ragazzo il cinema era "tutto". Ma più passano gli anni, più se ne disaffeziona, preferendogli di gran lunga la lettura. Lei si è dato una ragione di questo disamore?

Non c’è bisogno di fare ipotesi: è lo stesso Sciascia a dichiarare retrospettivamente nell’articolo intitolato significativamente Requiem per il cinema, che scrisse nell’agosto 1989 dopo aver visto, in una proiezione privata, Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, che si era a un certo punto sentito tradito da un cinema «diventato altra cosa», prodotto di consumo per «masse miseramente “bisognose”», un modo per realizzare un qualcosa che appaia «parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia». Non è una posizione snobistica, è la constatazione che il cinema inventivo, libero, capace di offrire conoscenza con un linguaggio diverso da quello delle altre forme d’arte non esisteva più ai suoi occhi, mentre la letteratura conservava una capacità di interpretare il mondo più consona al suo modo di vedere le cose. E non si pensi che sia la tipica laudatio temporis acti del letterato anziano: nell’89 non fa che ribadire una convinzione maturata da anni: se Sciascia è stato inattuale (e non è stato inattuale), lo è stato sempre. Una considerazione sul fatto se il bilancio di dare-avere fra letteratura e cinema fosse tutto a vantaggio della prima la rintracciamo già nel 1965, quando in risposta a un questionario sulle novità cinematografiche europee, che spaziava dal confronto fra Bergman e Antonioni all’impatto del Vangelo secondo Matteo sul dialogo fra comunisti e cattolici, esordì dichiarando «non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre». Che è ancora più tranchant rispetto alla formula offerta proprio a Tornatore in un’intervista nel 1982 (pubblicata sul «Messaggero» solo nel 1996) «da un'opera grande viene fuori un film mediocre e da un libro mediocre può venir fuori un grande film». Amava il cinema della sua giovinezza, e massimamente il cinema muto, mentre il ‘cinema nuovo’, che è stato decisivo nella strutturazione del nostro immaginario, gli diceva poco. La televisione addirittura nulla.

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