In un incontro avvenuto a Pesaro nel 1980 tra Leonardo Sciascia e gli studenti delle scuole della città, ad un certo punto della conversazione, lo scrittore afferma che gli piaceva molto andare nelle scuole, entrare in contatto coi ragazzi, ascoltare le loro domande - anche subire le loro critiche - perché era per lui un modo di verificare quello che aveva realizzato come scrittore. In un altro incontro a Lipari nel 1983, Sciascia indica la scuola come il luogo che ha il compito di interagire con la realtà, e cita Manzoni come chiave d’accesso ed esempio di una potenzialità della letteratura che spesso resta inespressa, e anzi, proprio a scuola, per ragioni tutte da chiarire, è ostacolata. Queste affermazioni contengono l’idea di una letteratura dal valore etico e militante, che ha la sua collocazione privilegiata nella didattica, dove addirittura il grande scrittore verifica la bontà della propria azione. Se consideriamo che l’opera di Sciascia è una continua riscrittura e un incessante completamento dei testi manzoniani, il significato di quelle parole appare come un preciso indirizzo pedagogico e metodologico che riguarda oggi anche la presenza di Leonardo Sciascia nella scuola. Uno scrittore che ha fatto della realtà il suo campo di indagine e che ha avuto bisogno, almeno due volte l’anno, di incontrare gli studenti per capire se avesse attivato un dialogo con le nuove generazioni, credo lasci pochi dubbi sullo scopo della sua scrittura e sui valori che intende trasmettere. Si fa un gran parlare di educazione civica e di dialogo tra studenti e i classici loro contemporanei: credo che Sciascia non possa assolutamente mancare in un percorso di studi che metta al centro sia l’uomo nella sua universalità, sia le problematiche di un presente così complesso. In un curriculum scolastico, i temi della verità e della menzogna, dell’habeas corpus, dell’interculturalità, delle inquisizioni e della Shoah, così come Sciascia li pone all’attenzione dei suoi lettori, mi sembrano irrinunciabili. Cercherò di entrare più nel merito di tali argomenti.

Nella prima parte del Consiglio d’Egitto il motivo del rapporto tra verità e menzogna, partito dalla grande impostura dell’Abate Vella, pone due questioni fondamentali e trasversali per l’uomo, nelle dimensioni individuale e collettiva. La prima riguarda la difficoltà della verità ad affermarsi. Essa risulta spesso perdente nella lotta contro la menzogna e ha bisogno di un impegno costante e instancabile per imporsi, della testimonianza credibile di chi la persegue, dell’onestà intellettuale di chi la cerca. La riflessione si aggancia al rapporto tra la Storia (la cui eco ancora proviene dalla sconfitta dei vinti, dalle persone di piccolo affare, dalle viscere vuote per la fame) e la storiografia, ovvero le carte che servono a fare la storia. Le stesse carte che quel vero possono contraffare o determinare, come è accaduto nei secoli, dalla Donazione di Costantino al Codex Aesinas, con implicazioni filologiche, giuridiche, esistenziali.

Molte inchieste - nel senso etimologico di ricerca della verità - vengono condotte da Sciascia anche attraverso il racconto giallo che egli, sempre nell’incontro pesarese accennato prima, assimila alla Bibbia. L’assenza di gialli nella letteratura italiana, afferma l’autore, si configura come una carenza religiosa; dunque esso è un genere alto che viaggia in tante direzioni. Così accade ne La scomparsa di Majorana, un giallo storico senza soluzione, un’indagine condotta da Sciascia (insieme a Pirandello e Camus, mi verrebbe da dire) che si inserisce perfettamente nella concezione esposta agli studenti, e che coinvolge fisica e metafisica, rapporto tra scienza ed etica, tra scienza e potere.

Sempre nel Consiglio d’Egitto si trovano le pagine tra le più alte della scrittura sciasciana, quelle che raccontano la tortura di Di Blasi e la sua condanna a morte. L’individuo, denudato e inerme di fronte al Potere violento che fa strazio del corpo, che uccide l’immagine di Dio che è nell’uomo, reagisce opponendo la sua dignità, pur nella solitudine e nella paura del dolore, e prova il sentimento altissimo della pietà verso chi non ha resistito. Leonardo Sciascia aveva iniziato la sua attività di scrittore riflettendo proprio sulla violenza e l’oppressione che la dittatura esercita su chi dissente, sottoponendolo al dolore fisico e all’annientamento dell’umanità. Nelle Favole della dittatura, c’è già, in nuce, quanto verrà sviluppato in tante opere successive.

Il Potere se la prende anche con chi, incolpevole, incappa nei suoi ingranaggi senza neanche capirne il perché, come accade alla protagonista de La strega e il capitano, che viene portata alla tortura e alla morte dopo un’indagine ridicola, la cui prova schiacciante sta nella perizia dei cuscini su cui dormiva il Melzi. La condanna è pronunciata dall’inquisitore con un «Io so» senza riscontri, di pasoliniana memoria: sarebbe bastato che tutti gli accusatori leggessero la letteratura per riconoscere che il malefizio altro non era che una storia d’amore.

Mario Tobino e Italo Calvino non si lasciarono sfuggire la dimensione arabo-sicula di Leonardo Sciascia. Egli stesso, parte integrante – per luogo di nascita e patronimico - di una storia secolare che intride la letteratura, e sulla quale si sono innestate la dinamica degli affetti proveniente dal mondo greco-mediterraneo e le letture degli autori della civiltà della ragione, ha creato nelle sue opere un miscuglio di culture e di immagini che costituiscono una risorsa inesauribile al nostro discorso. Da Giufà a Candido, da Ibn Hamdis a Montesquieu, l’obiettivo è sempre lo stesso: l’affermazione della verità, il rifiuto del dogmatismo, la libertà connaturata alla giustizia, l’esercizio dello spirito critico.

Il discorso cominciato con Le Favole della dittatura attraversa tutta l’opera dello scrittore: l’azione dell’Inquisizione si è perpetuata nelle inquisizioni di tutti i tempi, i «burocrati del Male» che hanno inventato l’efferata scienza della tortura si sono ripresentati all’appuntamento con la Storia in veste sempre più sofisticata e dissimulata: dai dottori che fecero condannare Caterina Medici, passando per la colonna infame degli untori della peste, fino ad arrivare ai carnefici della dittatura cilena e ai nazisti dello sterminio ebraico. La Nota che Leonardo Sciascia scrive per Storia della Colonna infame di Manzoni, pubblicata da Sellerio, resta una sintesi cruciale di tutto il suo percorso.

Sciascia non potrà più fare il punto di persona con i ragazzi delle scuole, ma il suo pensiero e la sua scrittura costituiscono un’eredità che ogni studente riceve in dono e che ogni volta la lettura saprà replicare.

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