20 maggio 2023

Scritti servili, di Cesare Garboli

È affermazione di natura ancipite attribuire l’eclissi della prosa saggistica, intesa nella sua forma più peculiare di speculazione su oggetti specifici e già prefigurati, al prevalere, nel dibattito culturale contemporaneo, di quella che si potrebbe chiamare certezza scevra di ogni dubbio, clara et distincta perceptio di esplicita matrice scientifica: se da un lato, infatti, la verità di tale mozione è innegabile, in particolare quando si pensi al saggio come protesta contro le quattro regole stabilite nel cartesiano Discorso sul metodo, dall’altro la sua nettezza senza sfumature contraddice inevitabilmente la natura intrinseca della forma saggistica e degli artefatti coi quali essa entra in relazione, a tal punto refrattari nel loro incontrarsi a qualsiasi analisi elementare da spingere Kant a trattare opere d’arte e organismi in modo del tutto analogo. Diversamente dall’analisi positiva (nel cui alveo rientra sotto un certo punto di vista anche lo strutturalismo), il saggio è un luogo all’interno del quale la materia viene accolta con tutte le sue contraddizioni, coi sussulti, le lacune, le esitazioni che un approccio che voglia definirsi genuinamente dialettico e non legato ad astrazioni logiche non può permettersi di ignorare. Ed esso, di fronte a un dibattito esasperatamente dicotomizzatosi a scapito persino di quella chiarezza dalla quale deriva, non potrà che rinsecchirsi per mancanza del naturale ossigeno grazie al quale poteva ammantarsi di un aspetto florido e ricco: in breve, quel viluppo in apparenza incoerente e intricatissimo che le opere d’arte mostrano con gesto impudico e sfacciato tanto inviso al pensiero compartimentato e miseramente positivo.

 

La ristampa, per Minimum Fax, degli Scritti servili di Cesare Garboli (con un profilo bio-bibliografico di Raffaele Manica e una postfazione di Giorgio Amitrano), in questo senso, non potrà che colmare di entusiasmo chiunque in qualche modo condivida quanto detto poc’anzi. Nel libro si snodano pagine dedicate non solo alle opere, ma anche all’incontro e al dialogo concreto, in carne e ossa, con i loro autori, fra i nomi più prestigiosi e interessanti della letteratura italiana del XX secolo; con una notevole eccezione, dalla quale forse sarà opportuno prendere le mosse per comprendere meglio non tanto il metodo, concetto il quale presuppone sclerosi e immobilità, quanto movimento e plasticità di un approccio aereo e agilissimo: Molière. Con la sua figura e opera, Garboli intrattiene un rapporto esclusivo e speciale, al punto da tracciare a partire da qui il modello di una visione critica unica e personalissima. Lo spunto di queste pagine è la Vie de Molière di Ramon Fernandez, del quale il critico viareggino non condivide in larga parte l’approccio, a parer suo troppo legato ai fermenti culturali, quelli del primo quarto del Novecento, nell’ambito dei quali si muoveva il biografo. In effetti, il tentativo di questa opera sembra, secondo gli esempi riportati, quello di ricondurre Molière nel porto accogliente e polito della letterarietà pura e scolpita dall’epigrammatico diamante del mot juste: un cosmo ordinato, lo si potrebbe definire, soprattutto lontano dallo spessore opaco della materialità, da quel “basso materialismo” che scuote e deforma idee e significati del quale Bataille in quegli anni iniziava a intuire il frastagliato profilo. Senza giungere a tale eccesso, a Garboli è sufficiente riportare Molière alla sua autentica identità di “uomo di teatro”, sprofondato in una congerie di contingenze e impedimenti legati inevitabilmente alla professione di chi, oltre che autore, è anche attore e organizzatore dei contratti e delle attività quotidiane di una compagnia teatrale.

La promozione di Molière, operata dalla cultura del primo Novecento, all’empireo della “grande letteratura” in realtà non può che essere di nocumento alla comprensione della sua fisionomia e della sua produzione, spiega Garboli, poiché sbroglia con troppa scioltezza il garbuglio di una vita che indissolubilmente è legata all’arte e assieme a essa è produttrice di contraddizioni, oltre che di un vero e proprio pensiero il quale, lungi dall’essere meramente teorico, acquisisce la propria forza dal suo scaturire diretto e immediato dal gesto artistico, la germinazione del quale elude qualsiasi struttura potenza/atto stringendo i due momenti in una compresenza serratissima e insolubile (di tale deroga al modello aristotelico, le pagine di Making di Tim Ingold offrono notevolissima descrizione).

Così, gli snodi della vita artistica, nella biografia di Fernandez, acquisiscono carattere troppo fluido, privo di pieghe, inciampi o lacune; al contrario, Garboli espone la propria scrittura e il confronto con gli autori agli attriti, agli sfregamenti di un corpo a corpo che impedisce al suo pensiero di paralizzarsi in quella fatidica prima impressione (o pregiudizio) sul quale molti critici costruiscono una carriera, del tutto incapaci di tornare sui propri passi o di rettificarsi con la consapevolezza di una verità mai stabile e definitiva, che viene alla luce col trascorrere del tempo. In questo senso, le pagine su Delfini sono magistrali: i ricordi dell’amicizia che lo legò a Garboli stesso, così come la ricostruzione di una vita, quella di Delfini, votata a uno scacco e a una marginalità irriducibili alla professione dello scrittore, si mescolano, nel lungo saggio a lui dedicato, non solo al lavoro sull’opera dell’autore de Il ricordo della Basca, ma anche a una meditazione appassionata su come proprio il pensiero e la vita del critico, a contatto con la materia alla quale la sua scrittura si avvinghia, subiscano una metamorfosi. Così, può darsi che una delle definizioni più calzanti della prosa saggistica, o quanto meno di quella di Garboli, sia quella di una forma che non respinga a priori la personalità dello scrivente, bensì la includa e incorpori materialmente, stabilendo un gioco di rimandi e riflessioni che non somiglierà ad altro che a un lavorio incessante e profondo di scrittura e vita che si modificano a vicenda; tutto ciò, naturalmente, contro qualsiasi tentazione di sostanziare definitivamente, rendendolo inamovibile, un principio critico-letterario o di instaurare un rapporto diretto e lineare, di stampo strettamente positivistico, fra vita e opere.

Non a caso, il libro si apre con una dichiarazione che si potrebbe definire, se così non la si congelasse, di metodo, alla quale segue immediatamente il racconto di una conversione: tracciando, nelle pagine dedicate «Al lettore», la dicotomia fra scrittore-scrittore e scrittore-lettore, Garboli identifica il primo con chi «lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto», e il secondo, alla cui fisionomia egli aderisce, con colui il quale «va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo»; subito dopo, rielaborando un frammento della Legenda aurea, racconta di come Cristoforo si convertì non attraverso digiuni o preghiere, bensì sfruttando la sua forza per aiutare le persone ad attraversare il fiume nel quale troppi erano annegati. Rendendosi servo (da qui il titolo della raccolta) il critico diviene salvatore di un senso che altrimenti andrebbe del tutto smarrito.

 

Cesare Garboli, Scritti servili (1989), con un profilo bio-bibliografico di Raffaele Manica, postfazione di Giorgio Amitrano, Minimum Fax, 2023, pp. 258

 

Immagine: Fila di libri in una libreria. Crediti: Jessica Ruscello / Shutterstock

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