Andrea Mantegna è stato oggetto dei miei approfondimenti a partire dal corso monografico tenuto da Luisa Giordano, all’Università degli Studî di Pavia, alla fine del secolo scorso. Da allora molto si è scritto, ma pochissimo sulla possibilità di identificare il suo volto nelle sue opere. I più importanti studi e approfondimenti usciti negli ultimi anni (compresi i cataloghi delle mostre, italiane e parigina, nonché il saggio di G. Agosti) si sono tenuti lontani dal tema degli autoritratti, in modo da rivelare come le mere varianti degli argomenti affrontati servano a disinnescare concettualmente un problema oggettivo e a rimuoverlo.

Per attuare l’anagnorisi [ ἀναγνώρισις], cioè il riconoscimento facciale, è necessario partire da documenti visuali che rappresentino in maniera indiscussa il volto di un artista. Abbiamo la fortuna di ereditare, secondo modalità proprie del culto dei Lari, un busto di bronzo disposto sulla tomba del pittore a Mantova, nella prima cappella a sinistra, della Basilica marchionale di Sant’Andrea. Poco importa se si tratti di una fusione di Gian Marco Cavalli su calco di Andrea Mantegna, è evidente che si tratta di un manufatto derivato da un’impronta del viso. Tale busto nasce dalla virtuosa e pia tradizione di prendere un calco del volto dei personaggi famosi, per riempirlo di cera e fonderlo in bronzo, una volta operate le dovute limature e modifiche (agli occhi, che durante il calco restano serrati). Esso presenta i tratti somatici ormai senescenti di un arcigno maestro, coronato di lauro, con una lunga frangia e una decorosa smorfia di sprezzatura, tipica dei busti clipeati entro lapidi tombali.

Una volta identificato il volto di un artista in un ritratto singolo ufficiale, basterà compararlo ad altri volti, inseriti all’interno delle sue opere, per comprendere che l’analisi degli autoritratti ci restituisce una serie di fototessere molto utili non solo a comprendere il modo in cui un artista è invecchiato, lungo la sua carriera, ma anche quali valori egli abbia assegnato alla propria figura, nel tempo, generando così una catena analogica di costanti di permanenza somatica (Patrizia Magli).

Il primo dei ritratti plausibili è nella cappella Ovetari a Padova, nella chiesa degli Eremitani (ormai bombardata e distrutta) allogata a Mantegna in data 16 maggio 1448. Egli aveva allora circa 18 anni, e si era da poco affrancato dalla bottega di Squarcione, suo maestro. Da documenti precedenti, riguardanti l’ancona della Vergine a Santa Sofia, a Padova, egli risulta nominato col titolo di Magister. Ciò significa che aveva la dignità di autoritrarsi, insieme al Pìzolo, suo collega, come risulta dalla tradizione bibliografica, che li identifica nelle due teste gigantesce inserite alla base dell’arco absidale, in cui si riconoscono i due autori: Nicolò Pìzolo (a destra) e Mantegna (a sinistra). Secondo il Di Monte: "in una richiesta di arbitrato definitivamente composto il 27 settembre [1449] grazie all'intervento di Pietro Morosini, con il quale si distinguevano scrupolosamente le rispettive competenze dei due pittori, dalle aree d’intervento fino alla spartizione del materiale dei ponteggi già impalcati. Al Pìzolo toccavano così la finitura della pala, la decorazione, già cominciata, della tribuna absidale, della metà destra dell'arco d'ingresso all'abside”. Sulla base di questo documento, pedissequamente seguìto, la letteratura inverte da sempre le due teste, attribuendo erroneamente le fattezze di Mantegna all’autoritratto di Pìzolo e quelle del Pìzolo all’autoritratto di Mantegna. Tuttavia il documento non dice che le teste gigantesche sono autoritratti, ma specifica solo le pertinenze e la suddivisione dei lavori. In questo caso i dati che emergono dall’osservazione comparata e sistematica degli altri autoritratti possono essere di fondamentale importanza per dirimere errori e sviste, nati sulla scorta della fedeltà a quanto afferma il documento di arbitrato. Inoltre, dato che gli affreschi in questione sono andati distrutti (le uniche riproduzioni particolari in nostro possesso sono le fotografie Böhm n. 6287 e Anderson 10446), tali informazioni risultano risolutive. In realtà, (come è stato fatto da Mauro Lucco nella sua recente monografia sul pittore, ma senza entrare nel merito dell’autoritratto), montando in una tavola sinottica l’indiscusso autoritratto di Mantegna nella sua Presentazione al tempio (un dipinto del 1453, più o meno contemporaneo agli affreschi, oggi alla Gemäldegalerie di Berlino) insieme alle due teste giganti, si noterà come la perduta testa della Cappella Ovetari alla base destra dell’arco absidale presenti tratti somatici evidentemente sovrapponibili con l’autoritratto di Berlino (capelli ricci con ciocche a tenaglia, occhiaie, fronte piana, naso sottile, labbra piccole).

L’altra testa, alla base sinistra dell’arco, invece, ha lineamenti negroidi, occhiaie ben segnate e doppie, arcata sopraccigliare più profonda e fronte aggrottata, una fossetta sul mento, mentre i capelli sono tirati all’indietro con una maggiore stempiatura, che lascia intuire un’età maggiore (Pìzolo era nato nel 1420) rispetto al Mantegna, allora diciottenne, dell’altra testa. Sarà poi necessario comprendere se Mantegna ritrasse Pìzolo e viceversa, o possiamo invece parlare di autoritratti veri e propri, e non di eteroritratti. Questo problema attiene piuttosto allo stile che al riconoscimento dei volti, anche se Lucco, su base stilistica, sembra attribuire il volto da noi riconosciuto come quello di Andrea proprio alla sua mano. Resta in ogni caso indubbio, a causa della sovrapponibilità dei due volti, che Mantegna abbia citato la testa gigante a destra dell’arco absidale nella sua Presentazione al Tempio, qualche anno dopo, avvalorando di per sé il fatto che si tratta di un autoritratto.

Un altro autoritratto di Mantegna si trovava nella stessa cappella, nel riquadro della storia di san Giacomo davanti a Erode, databile al 1451-52 circa, indicato per la prima volta da Marzia Faietti, nel soldato che, in armatura all’antica, sta al margine sinistro della scena, guardando in basso verso lo spettatore. Ecco che i suoi capelli cresciuti e portati con la riga in mezzo (anastolè, come Alessandro Magno nella ritrattistica di Lisippo) assumono il taglio e la foggia che ritroveremo più avanti.

Si ravvisano altre forti somiglianze nei due san Sebastiano, sia quello di Vienna (1456, firmato) che quello di Parigi (1481). Entrambi, infatti, sono mori (a fronte di una tradizione che invece fa prevalere un santo biondo) e presentano non solo l’età, ma anche i lineamenti di Mantegna (curioso che con l’invecchiare il pittore si sia lasciato crescere i capelli, che prima teneva corti). La deissi è evidente in entrambi, vale a dire che l’indice è sostituito dalle frecce, mentre lo sguardo è rivolto a Dio, verso l’alto, poiché i dipinti vanno letti come ex-voto.

Una rapida consultazione del Corradi ci conferma, in quegli anni, la presenza della peste sul territorio veneziano, e sappiamo che Sebastiano era ritenuto un valido protettore contro questo flagello. Allo stesso modo in cui Bartolomeo della Gatta dipingeva i suoi san Rocco come ex-voto, e, non avendo modelli a disposizione per evitare il contagio, si ritraeva nel santo, così fece Mantegna. San Sebastiano è uno dei più importanti veicoli iconografici di autoritratti, non solo per Mantegna, ma anche per tutti gli altri pittori.

Arcinoto è poi il volto del pittore nascosto tra le foglie di una candelabra nella camera degli sposi, pubblicato da Rodolfo Signorini, che ci dice con quanta discrezione il pittore potesse non solo inserire il suo volto senza strepito, ma anche osservare ciò che accadeva in una delle stanze di rappresentanza più importanti del castello. La stessa cosa avviene in uno dei Trionfi, che si trovano oggi a Hampton Court, quello con i Portatori di Bottino, in cui il volto inequivocabile del Maestro spunta da una portantina carica di lebeti bronzei, appena di fronte a un soldato a capo chino, che porta una panoplia appesa a una pertica.

Ma il più interessante ritratto, ipotizzato da Sandrina Bandera nella chiusa di un suo saggio, è anche quello più importante di tutti: il Cristo Morto di Brera. Arrivammo a tale ipotesi in modo del tutto parallelo, e questo mi conforta poiché è una riprova del nostro corretto operato, la mia allieva la dottoressa Erika Medina ed io già nel 2012, nella tesina da lei presentata per l’esame di storia dell’arte. Se il Cristo Morto è un autoritratto, allora sarà stato fatto davanti a uno specchio, posato a terra nel modo più semplice, standovi sopra in piedi. Ciò risolve l’annosa questione della prospettiva del dipinto. Il pittore, stando al cavalletto, rialzato su una predella, tenne ai suoi piedi uno specchio leggermente inclinato (più o meno come sulla pedana di un podoscopio, se fosse stato sdraiato, infatti, i piedi si sarebbero rilasciati, e con le punte verso l’esterno). Si aggiunga poi, a riprova della nostra spiegazione, un ulteriore argomento: è del tutto improbabile che Cristo fosse rappresentato senza barba, in quanto egli era nazireo, e cioè, allo stesso modo del Battista, aveva fatto voto di non tagliare né barba né capelli. E quindi il fatto che Mantegna, in un dipinto in cui raffigura Gesù, si distanzî dalla sua tradizionale iconografia è un’ulteriore riprova della nostra ipotesi. Mi auguro che in futuro eventuali interventi di valorizzazione si muovano nella direzione da noi mostrata. Paradossalmente, il dipinto si vedrà meglio se sarà disposto a terra, come lo specchio in cui Mantegna si vide riflesso (Adhaesit pavimentum anima mea) e non come nell’imbarazzante installazione di Olmi, a guisa di forno crematorio, che fino a qualche tempo fa, alla Pinacoteca di Brera, rovinava la fruizione ai visitatori con uno scomodo gioco di riflessi. Impossibile non vedere la somiglianza, l’immagine parla da sola e riporta subito all’Imitatio Christi di Tommaso Malleolo da Kempis: il pittore imita Gesù anche nella morte, augurando a sé stesso la resurrezione.

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