Un giovane uomo nudo scolpito in marmo, alto circa cinque metri, incirconciso, sta in piedi di fianco a un tronco di legno. Tiene in mano un proiettile e i due capi di un nastro che scorre lungo la sua schiena. Il ragazzo è vagamente strabico (eteroforico). Da qui a dire che si tratta di una statua di David ci vuole un bel coraggio. Mettiamoci in testa che le immagini hanno un senso compiuto e sono come un alfabeto. Oggi però tutti sanno leggere l’alfabeto, mentre le immagini hanno acquisito uno status di ambiguità. Come dice Peter Greenaway siamo per la maggior parte degli analfabeti visuali. Se io volessi scolpire un David mi rifarei alle convenzioni che ne fissarono l’iconografia, cioè al testo biblico. E da qui dobbiamo partire: David era giovane, bello, dallo sguardo bello (I Sam. 17,33), rosso di capelli (come Gesù I Sam. 16, 14-23). Michelangelo lo scolpisce giustamente bello, strabico (lo strabismo di Venere Peta, e rosso di capelli, in origine i capelli erano dorati).

La fionda che David tiene in mano non è né una mazzafionda, né una fionda a forcella, e se esaminiamo attentamente la sua conformazione nastriforme, non troviamo alcuna raffigurazione di fionde di questo tipo. Le fionde erano costruite con due cordicelle di crine di cavallo e una tasca centrale, nella quale era disposto il proietto, esso era fatto roteare e lanciato verso il nemico a grande velocità in ragione della forza centrifuga, il lancio avveniva rilasciando dalla mano che li stringeva uno dei capi.

Quello che invece il David tiene in mano non è un semplice sasso, ma è molto chiaramente riconoscibile con una ghianda missile. Questi ellissoidi (in piombo o in terracotta) erano stati introdotti dai Romani e spesso portavano inciso il nome del soldato a cui appartenevano (o un insulto per il nemico). Di per sé è come mettere in mano al David una firma.

Se si fa roteare un nastro nell’aria, l’attrito è certo maggiore di quello ottenuto da una semplice cordicella. Quindi, quella che David tiene in mano, non può essere una fionda. Guardiamolo più da vicino: si tratta di una vera e propria striscia; al contrario della superficie del corpo dell’eroe presenta una ruvidezza ingiustificata, quasi che il marmo, lì, fosse stato lasciato grezzo e non levigato. La sua consistenza (nelle pieghe che si notano soprattutto in corrispondenza della mano sinistra che ne stringe il capo superiore) sembra quella del cuoio: una correggia di cuoio. Se fosse di tela, si piegherebbe lungo la schiena, sarebbe più stropicciata e non tesa dal suo stesso peso, come invece ci appare. Di certo non è una fionda e questo particolare ha creato imbarazzo in non pochi studiosi nell’interpretazione del dato figurativo.

E allora che cos’è? Lo vedremo più avanti, per ora lasciamo che la domanda si smerigli nella tasca della nostra fionda, per qualche tempo, perché il colpo che vogliamo tirare è davvero un colpo grande come il Colosso, di quelli che fanno stramazzare i giganti.

Guardiamo ora le mani del ragazzo: entrambe non assumono una posizione naturale, ma presentano un dito sollevato rispetto alla posizione delle altre dita; quindi indicano qualcosa, anche se la deissi è dissimulata. Un dito “indica” nella direzione di ciò verso cui la sua punta è diretta: il ragazzo indica sé stesso. Questo particolare potrebbe essere molto ben giustificato dal fatto che secondo Ugone di san Caro, cardinale domenicano e commentatore dell’Antico Testamento, le cinque pietre lucide, che David porta con sé per sfidare il gigante Golia, rappresentano la “cognitio sui” e cioè l’autocoscienza, o propriocezione, di cui abbiamo parlato nella prima puntata. Come se egli dicesse: “Io sono me stesso”. Per una strana coincidenza un fratello di Michelangelo era domenicano.

Guardiamone infine le pudenda: come suggerisce Cennino Cennini, l’uomo “Dee avere la natura sua, cioè la verga, a quella misura che è piacere delle femmine; siano i suoi testicoli piccoli, di bel modo e freschi.” Fin qui tutto torna, ma come giustificare che un efferato circoncisore come David fosse incirconciso? (Proprio lui che, per sposare la figlia di Saul, dona al re ben duecento prepuzi di Filistei (I Sam. 18, 26-27). Il problema è troppo grande, la statua non può essere un David, prima di essere riconosciuta per quello che è veramente, ontologicamente.

Quando, nel 1501, Michelangelo viene richiamato da Roma a Firenze è ormai uno scultore affermato, che torna nel suo luogo di formazione. La ruota della Fortuna gira a suo favore. Il blocco di marmo che giaceva soltanto sbozzato all’Opera del Duomo, e che Michelangelo accetta di scolpire come un profeta da mettere su uno dei contrafforti della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, era stato cominciato da Agostino di Duccio, che per motivi tecnici (marmo di bassa qualità) aveva rinunciato all’incarico. Michelangelo dimostra una prodezza pari a quella del giovane David, ha solo 26 anni, e accetta la battaglia con il blocco di marmo gigante, così come David scende in campo contro Golia. Il paragone non è un artificio retorico: l’identificazione di sé con il proprio personaggio è ampiamente supportata da un endecasillabo autografo riportato a fianco di un disegno preparatorio per il David bronzeo, sul foglio 714 r del Louvre, dove Michelangelo scrisse: “Davicte chollafromba et io chollarcho”. [Davide con la fionda ed io con l’arco].

Nello stesso periodo infatti gli era stato commissionato un altro David, in bronzo per un committente francese: Pierre de Rohan, maresciallo di Giè. Secondo la tradizionale interpretazione il verso significa che, come David abbatte il gigante Golia con la sua fionda, allo stesso modo Michelangelo riesce a vincere la mole indigesta del marmo con il trapano ad arco, usato allora dagli scultori per traforare la pietra.

Non mi sembra che nessuno abbia ancora notato un altro concetto fondamentale, che si può logicamente inferire dalla similitudine di cui sopra, e cioè: così come la fionda è l’arma dei pastori, (l’arma più umile e primitiva), allo stesso modo la scultura è considerata arte meccanica, vile. Nonostante ciò la fionda vince sul gigante che l’esercito di Saul non era stato in grado di sconfiggere, così come la scultura di Michelangelo vince sul blocco di marmo che Agostino di Duccio e altri scultori dopo di lui non erano stati in grado di portare a termine. “Davide sono io”, ci dice Michelangelo, e fino ad ora mi pare che nessuno abbia dovutamente enfatizzato questo particolare. Possiamo davvero assestare un colpo così grande alla tradizione ermeneutica sulla statua più famosa del mondo?

La somiglianza di David con il volto di Michelangelo Buonarroti, per come ci è descritto dal Vasari è del tutto plausibile.

Non solo abbiamo la fortuna di poter confrontare il busto del suo monumento funebre a Santa Croce (tratto da un calco della sua maschera funebre); ma esistono anche diversi auto ed etero-ritratti di Michelangelo, che raffigurano l’effigiato in età matura (con la barba): tutti rispettano un dato fisiognomico assai importante, quella che si potrebbe definire come una costante somatica: le sopracciglia aggrottate e la fronte corrugata (il lavorìo dei pensieri nella mente del genio). Michelangelo riporta sul volto del David anche il naso ingrossato ai lati, segno del pugno che Pietro Torrigiani gli aveva assestato dopo un litigio, al Carmine (Vasari).

Abbiamo anche la grande fortuna di riconoscere nel volto del San Proclo, dell’Arca di San Domenico a Bologna (ecco che tornano le tangenze domenicane) un autoritratto di Michelangelo giovanissimo (19-20 anni). Stesse sopracciglia aggrottate e stessa fronte corrugata, stesso viso, stessa corporatura, stessa posizione della mano sinistra che indica il proprio petto dicendo: “Sono io che mi sono fatto”, (uniche differenze col David: qualche anno di età e che San Proclo è vestito).

Come abbiamo visto nelle puntate precedenti la scelta di autoritrarsi in un particolare personaggio non è mai del tutto casuale, ma è nei personaggi nei quali gli artisti si identificano (vuoi per l’età, vuoi per la vicenda morale che rappresentano, vuoi per le analogie con il proprio vissuto o il proprio nome) che si ritraggono anche. David era un giovane pastore (I Sam. 16, 1-13), è il simbolo della gioventù che rinasce dal tronco dell’albero morto (“et egredietur virga de radice Iesse et flos de radice eius ascendet”, Is. 11,1) con questa statua il giovane Michelangelo ottiene il riconoscimento definitivo della fama, e le successive prestigiose commissioni, guadagna il favore dei potenti, benché egli sia di umili origini, con questa statua Michelangelo crea il proprio mito, come diceva il suo amico Pico della Mirandola egli è plastes et fictor [scultore] della statua di sé stesso. Ma David avrà anche un contraddittorio rapporto con la monarchia (così come Michelangelo lo avrà coi potenti) e - coincidenza anacronica - sarà l’architetto del tempio di Gerusalemme, proprio come Michelangelo sarà quello della cupola di san Pietro, a Roma. Lo stesso si potrebbe dire per l’amore di Gionata per David (e quello di Michelangelo per Tomaso de’ Cavalieri). Come Michelangelo fugge da Firenze, David fugge dalla terra santa ( I Sam, 26, 19-20).

Il David marmoreo di Michelangelo Buonarroti è dunque un gigantesco autoritratto nudo (una tipologia assai diffusa anche in pittura), nato come il calco in cera del proprio corpo, all’età di 26 anni, e trasferito con il finitorium di Leon Battista Alberti nel blocco di marmo già sbozzato da Agostino di Duccio, con mazzuoli, trapani, scalpelli, sgorbie e infine levigato proprio come è oggi levigata e smerigliata la Pietà Vaticana.

In questo, Michelangelo, si dimostra un virtuoso della smerigliatura, una tecnica poco diffusa, che era ottenuta con grande pazienza, e che in mancanza di carte abrasive (non ancora inventate) si praticava con lo sfregamento di cinghie di cuoio ruvide (soprattutto nelle statue a tutto tondo) sulle quali era stata sparsa la polvere di ercinite, un abrasivo naturale durissimo, secondo solo dal diamante, o pietra pomice. Dobbiamo immaginare che l’erosione di più di 300 anni all’aperto abbia reso opaca la pelle dell’eroe e che un tempo essa fosse lucidata, proprio dalla cinghia che corre sulle spalle di David-Michelangelo, a questo punto lo strumento si rivela in tutta la sua aderenza al dato biografico, e si può riconoscere come un cingolo, col quale lo stesso Michelangelo lucidò il suo capolavoro.

Michelangelo vuole autoritrarsi nel David, e farsi riconoscere, firmandolo col proprio corpo e col proprio strumento di lavoro. Perché nessuna delle fonti (a parte lui stesso) ce ne parla? Il messaggio personale, il codice illocutivo originario, quello che la filologia ha il compito di restituire, spesso viene travisato. Il David nasce come la statua di un profeta, da porre su un contrafforte dell’abside del Duomo di Firenze, ma, quando è finito, tutti si rendono conto della sua meraviglia, e la statua smette d’essere percepita come un soggetto sacro, diventa prima di tutto un simbolo civico, cessa di parlare con le parole di Michelangelo, scivola facilmente nelle mani del governo repubblicano fiorentino, che ne fa un simbolo della propria vittoria sulla famiglia dei Medici. E come sappiamo, quanto più un’opera d’arte “toglie il grido” alle altre [G. Vasari], tanto più la percezione che il popolo ne avrà è lontana dal messaggio che voleva darci l’autore. Il David di Michelangelo Buonarroti è il suo autoritratto.