Qualcuno l’ha definito un “James Bond con un bel taglio di capelli” e, in effetti, Gregory David Roberts, occhi azzurri e lunghi capelli biondi raccolti, geometricamente, in una curiosa treccina, ha il physique du role dell’avventuroso eroe di Hollywood, anzi di Bollywood, dove ha lavorato come procacciatore di comparse di stranieri a Bombay.
Lo scrittore australiano del best seller mondiale, Shantaram (Neri Pozza, 2005), lo rivela in un video-intervista, “Le strade di Shantaram”, di Italo Spinelli per la regia di Jan Michelini, visibile su Youtube. Nello stesso video Roberts rivela che non sta nella pelle all’idea di vedere Johnny Depp, che ha acquistato i diritti del film che uscirà per la Warner Bros, e Amitabh Bachchan “due tra i migliori attori di questi tempi lavorare assieme, in India, a Bombay”. Eppure della pellicola ancora nessuna traccia. L’inizio delle riprese, annunciato per settembre 2008, nel video tra novembre e dicembre, sembra essere stato posticipato, e non di poco.
Nel frattempo Johnny Depp, che dovrebbe vestire i panni di Lin, Shantaram, “l’uomo della pace di Dio” appunto, sembra avere alcuni problemi con l’alcol e con la nuova compagna, la splendida attrice Amber Heard, sua seconda moglie (dopo Vanessa Paradis), che vuole il divorzio, perché l’attore avrebbe tentato di soffocarla. Una vita che adesso Johnny Depp vorrebbe vivere ritirato nella verde Svizzera, al confine con l’Italia (dove è anche anche più difficile l’estradizione). Una vita apparentemente in contrasto con il protagonista Shantaram, nel primo e nel secondo romanzo.
È uscito anche in Italia, il 3 dicembre 2015, il sequel, L’ombra della montagna, The Mountain Shadow, tradotto, anche questa volta, da Vincenzo Mingiardi, sempre per Neri Pozza. Circa un centinaio di pagine in meno rispetto al primo, “solo” mille e ottantuno pagine, di viaggi attraverso Bombay, spesso a bordo di motocicletta, tra slum in cui trovare rifugio e sontuosi palazzi di perfidi inganni, prigioni brulicanti di torture, calci sferrati da poliziotti corrotti e capannoni abbandonati dove sfidare killer spietati, in cui violenza e affetto coincidono, rovinosamente.
Passate diverse settimane da quando è uscito il sequel, ho potuto vedere, con una certa tristezza, in diverse librerie, una piccola montagna del secondo Shantaram, ancora invenduta. Pile di libri fasciati dalle scritte “attesissimo seguito” in attesa di lettori, una montagna che gettava ombra, anche se le luci studiate della libreria non rendevano l’effetto. Guardavo quei libri con malinconia e desiderio, quello che ti prende quando vedi un libro che ami. Forse è solo una questione di tempo, perché il primo libro di Roberts ha visto la luce nel 2003, in Italia nel 2005; intanto i suoi lettori hanno vissuto, gioito, viaggiato, visitato l’India, magari qualcuno di loro è pure morto, si sono arricchiti e impoveriti, hanno perduto la loro fortuna al gioco, hanno scelto la via della meditazione, al seguito di qualche Sadhu. Eppure al contrario dei facili pregiudizi, The Mountain Shadow è un libro bellissimo. I venti del successo editoriale sono imprevedibili, ma il talento no perché “il talento è il modo in cui lo usi”, come dice una volta Zia Mezzaluna, un personaggio davvero indimenticabile nel romanzo, tutto seduzioni e traffici di pesce e denaro.
L’ombra della montagna è un libro che attraversa l’India nelle sue seducenti contraddizioni, nei suoi costumi corrotti e nei suoi riti pagani e mistici come il “funerale in cielo” sul tetto del palazzo abbandonato dell’Air India, dove in un panorama su Bombay ruota il simbolo della compagnia, un sagittario scarlatto. E la montagna è salita accidentale e discesa ripida, è il simbolo dell’umanità e del suo contrario, è “l’onda perfetta, l’onda che continua a sostenerti senza mai farti sprofondare”, anche quando hai perduto per sempre il tuo migliore amico che è come un fratello e la tua fidanzata che però non ami come dovresti e che ti tradisce, mentre scopri che il tuo socio è un pedofilo che custodisce un vergognoso harem.
Il libro, nonostante gli scontri, il male e la morte che lo attraversa, è un inno alla fiducia e alla libertà dell’anima, alla libertà di cambiare ciò che siamo e ciò che facciamo. Non c’è retorica, dopotutto Gregory David Roberts ha copiato da sé stesso, dalla sua vita da fuorilegge, contraddittoria e spesa senza coerenza: da brillante studente di filosofia impegnato nella contestazione, a eroinomane e fuggiasco, da evaso a scrittore di fama internazionale. Dopo il fallimento del matrimonio, l’allontanamento dalla figlia, la caduta nell’abisso della tossicodipendenza. La prima rapina a mano armata, con una pistola giocattolo. Altre rapine, la condanna a ventitré anni e la fuga, dal carcere di massima sicurezza, di Pentridge diventando, in un colpo, il best seller dei ricercati in Australia, sul finire degli anni ’70.
Evaso australiano, ex drogato e scrittore esattamente come il protagonista dei suoi libri, battezzato Shantaram, “l’uomo della pace di Dio”, anche se sa maneggiare le armi e alzare le mani. Una parte cospicua della biografia di Gregory David Roberts è diventa letteratura. L’India è un paese in cui è possibile tutto, ridisegnarsi una vita, completamente diversa dalla precedente, in tasca soltanto un passaporto nuovo con un nome sufficientemente credibile. È il “Bombay dream”, come lo definisce lo scrittore, il sogno indiano che rappresenta la libertà, come spiega, guidando tra le strade di Bombay che ha descritto nel suo libro: “è la libertà che puoi avere a Bombay e in nessun’altra città che conosco e questa libertà viene da una tolleranza che è nel cuore di un popolo in cui c’è un grande rispetto reciproco”.
Nell’intervista, ripercorre il suo passato da galeotto nei vicolo dello slum in cui viveva, dove aveva improvvisato un’infermeria, nella vita come nel romanzo, semplicemente perché aveva salvato dall’overdose molti suoi amici tossicodipendenti in Australia, rispettoso e rispettato, mentre “la storia di Shantaram si stava scrivendo”. Eppure, dopo la cattura, nel 1990 a Francoforte, il carcere di massima sicurezza a Preungesheim, l’estradizione in Australia, inizia la redenzione, attraverso la scrittura. Lo rivela nei ringraziamenti: “ho impiegato tredici lunghi tormentati anni per scrivere Shantaram. Le prime due bozze del libro – sei anni di lavoro, seicento pagine – sono state distrutte in prigione. Le mie mani, afflitte dai postumi del congelamento, erano messe a dura prova dagli inverni trascorsi nel reparto punitivo: molte pagine del manoscritto, che conservo tuttora, portano tracce del mio sangue”.
All_’ombra della montagna_, nella luce fatta dalla tenebra del male, aleggia speranza di essere migliori di come siamo, una fiducia che alberga nelle nostre anime, nonostante la dissipazione, senza pace, delle nostre vite. Lo precisa in una nota, che sa di excusatio non petita, l’autore: “Alcuni personaggi del romanzo vivono esistenze autodistruttive. Per descriverli in modo autentico è necessario che bevano, fumino e assumano droghe. Non sostengo l’uso di alcol, fumo e droghe, e allo stesso modo non sostengo il crimine come scelta di vita, e la violenza come mezzo valido di risoluzione dei conflitti. Ciò che sostengo, invece, è lo sforzo di fare del nostro meglio per essere giusti, onesti, positivi e creativi con noi stessi e con gli altri”.
Gregory David Roberts, un paio di anni fa, ha deciso di cambiare nuovamente rotta alla sua vita, di fuggire di nuovo, di evadere dalla prigione della notorietà, semplicemente una lunga lettera d’addio sulla sua pagina Facebook, una nuova pagina bianca del capitolo da aggiungere al romanzo della sua vita. “Cari amici, lettori, colleghi scrittori, mi sono ritirato dalla vita pubblica. Non concedo più interviste, non ho email, telefonino o profilo social. Tutto il mio tempo è dedicato a nuovi progetti e alla mia amata famiglia. Non fuggo dalla vita. Vado verso una reclusione creativa...”

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