Negli Stati Uniti, prima della Grande Guerra, gli immigrati tedeschi erano una comunità forte e rispettata, che aveva contribuito in modo decisivo all’elezione di Abraham Lincoln e alla vittoria degli Unionisti. Dopo l’entrata in guerra dell’America a fianco di Inghilterra e Francia, nell’aprile del 1917, il clima cambia bruscamente. La Germania, tuona il presidente Wilson nel suo discorso al Congresso, “fin dall’inizio del conflitto ha riempito di spie le nostre città e perfino gli uffici del nostro governo”. Se è vero che gli agenti del Kaiser hanno compiuto sabotaggi e attentati, non si può per questo criminalizzare in blocco cinque milioni e mezzo di persone. Ma la guerra fa strage di coscienze, oltre che di vite: quando un popolo si mobilita contro un altro popolo, chi porta un cognome straniero, chi veste in modo strano o parla con un accento diverso diventa un potenziale traditore, una spia, un terrorista. Non ci si fida più nemmeno del vicino di casa.

Mentre un milione di “veri patrioti” combattono e muoiono in Europa contro gli Imperi centrali, negli States si scatena la caccia al “nemico interno”. Nella città mineraria di Collinsville, Illinois, un immigrato tedesco di nome Robert Prager viene assalito da una banda di scalmanati, denudato, avvolto nella bandiera a stelle e strisce, e poi impiccato a un albero. Si scoprirà che non è una spia e non ha fatto nulla di male, ma gli aggressori verranno tutti assolti. In Florida, un’altra squadraccia bastona un povero cristo dall’accento teutonico che non vuole acquistare “war bonds” per sostenere l’esercito. In California, un tale che aveva difeso il Kaiser viene incatramato, cosparso di piume e incatenato a un cannone. La crociata sconfina nel ridicolo, innescando una vera e propria “pulizia lessicale”. I pastori tedeschi vengono ribattezzati “cani poliziotti” e i bassotti (Dachshund) diventano “liberty dogs”, nei menu dei ristoranti gli hamburger si chiamano “bistecche della libertà”. Molte scuole aboliscono i corsi di tedesco, in varie città le statue di Goethe e di Schiller vengono abbattute e fatte a pezzi. Una canzone molto popolare, Don’t Bite the Hand That’s Feeding You, non mordere la mano che ti nutre, suggerisce di rispedire a casa loro gli immigrati sleali. Negli articoli e nelle vignette sui giornali, i soldati con l’elmo chiodato vengono raffigurati come scimmie, maiali e mostri. Hollywood comincia a sfornare film di spionaggio dove il cattivo è sempre di sangue tedesco e complotta con altri tedeschi contro il suo paese di adozione, e solo i buoni investigatori americani riescono a sventare i suoi disegni criminali. E volano di bocca in bocca le più lugubri leggende metropolitane, come la “fabbrica dei cadaveri”: i tedeschi prendono i corpi dei soldati morti e li fanno bollire per produrre grasso. Non c’è niente di vero, si scoprirà in seguito: in quelle caldaie cuocevano solo carcasse di cavalli.

Anche John Steinbeck, nel romanzo La valle dell’Eden, racconta di un sarto di origine tedesca perseguitato dagli abitanti di un villaggio. Ecco il brano (edizione tascabili Bompiani, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini): “Da circa vent’anni Mr Fenchel faceva il sarto a Salinas. Era basso e grasso e aveva un accento veramente ridicolo. Passava la giornata seduto al tavolo, a gambe accavallate, nella piccola bottega di Alisal Street, e la sera tornava a piedi alla sua casetta bianca, in fondo a Central Avenue. Non faceva che ridipingere la casa e lo steccato bianco sul davanti. Nessuno si era mai interessato al suo accento, finché non scoppiò la guerra: allora improvvisamente tutti capimmo. Era tedesco. Anche noi avevamo il nostro tedesco. Non gli servì niente rovinarsi comprando buoni di guerra. Era una copertura troppo ovvia.

La Home Guard si rifiutava di arruolarlo. Non volevano che una spia venisse a sapere i loro piani segreti per la difesa di Salinas. E chi avrebbe voluto un vestito fatto dal nemico? Mr Fenchel sedeva tutto il giorno al tavolo, senza niente da fare; perciò imbastiva e scuciva e ricuciva e riscuciva sempre lo stesso pezzo di stoffa.

Contro Mr Fenchel ricorremmo a ogni crudeltà che ci potesse venire in mente. Era il nostro tedesco. Passava tutti i giorni davanti a casa nostra, e c’era stato un tempo in cui parlava con tutti, uomini donne bambini e cani, e tutti gli rispondevano. Adesso non gli parlava nessuno, e rivedo ancora la sua paffuta solitudine e l’espressione di orgoglio ferito”.

Anche Steinbeck e sua sorella fanno la loro parte. Un giorno vanno incontro al sarto e si mettono sull’attenti gridando “Hoch der Kaiser!”. Lui scoppia in lacrime. “È uno di quei ricordi vergognosi che ancora mi fa sudare e mi annoda la gola”, confessa lo scrittore. Niente però in confronto a quello che faranno, qualche sera dopo, una trentina di energumeni: “Abbatterono lo steccato bianco di Mr Fenchel e appiccarono il fuoco alla facciata della casa. Nessun figlio di puttana amico del Kaiser poteva farla franca, con noi”. Pagine che vale la pena rileggere, in questi giorni di odio e di sangue.