Una delle domande che vengono fatte più frequentemente riguardo la pandemia in corso è: “Questa situazione era prevedibile?”

Per rispondere a questa domanda però, data la complessità di una situazione come quella dell’attuale pandemia, si deve scomporre il problema nei suoi elementi chiave. E quindi le domande diventano molte: “era prevedibile l’insorgenza di una zoonosi in una certa area della Cina?”; “era prevedibile che un altro Coronavirus, dopo quelli della SARS e della MERS, potesse passare all’uomo?”; “era prevedibile che in poche settimane un’epidemia di scala regionale diventasse una pandemia?”; “erano prevedibili gli impatti sanitari, sociali, ed economici del SARS-CoV-2?”.

Rispondere in modo esauriente a queste domande richiederà uno sforzo scientifico e politico su più fronti, che occuperà i prossimi mesi e probabilmente anni. Però alcune considerazioni possono essere già fatte, sulla base di quello che era stato detto e scritto prima della pandemia. In particolare, qualche elemento esisteva per rispondere almeno alla prima domanda sul rischio di insorgenza di malattie infettive di origine animale (le zoonosi).

Negli ultimi decenni oltre il 70% delle malattie infettive emergenti ha avuto origine dagli animali (soprattutto selvatici). Il rischio di zoonosi quindi dipende dalle complesse interazioni fra animali selvatici e/o domestici e l’uomo. L’insorgere di nuove malattie infettive è correlato con la densità di popolazione umana e la diversità di specie animali, ed è conseguenza di attività umane come la deforestazione, l’espansione di aree coltivate (cambiamenti di uso del suolo), l’aumento di allevamenti, la caccia e del commercio di specie selvatiche (Di Marco et al., 2020). Un esempio è stata la comparsa del virus Nipah in Malesia nel 1998, direttamente collegabile all’aumento del numero di allevamenti di maiali ai margini della foresta tropicale, dove vivono i pipistrelli della frutta, ospiti naturali del virus. Anche le origini di altri virus sono state recentemente collegate a specie di pipistrelli soggette a caccia (SARS) o che abitano regioni che hanno subito un rapido sviluppo antropico (Ebola).

La probabilità che un patogeno sia trasmesso dagli animali all’uomo e generi l’insorgenza di una zoonosi è molto elevata nelle zone tropicali e subtropicali, dove c’è elevata copertura forestale e un’alta biodiversità animale, soprattutto se queste zone sono soggette a conversione degli habitat naturali per uso agricolo (Allen et al., 2017). Ad esempio, il Sud-Est asiatico e anche le regioni orientali della Cina erano stati individuati fra le zone a maggior rischio di insorgenza di malattie infettive in uno studio pubblicato nel 2008 (Jones et al., 2008) e in uno studio del 2017 (Allen et al., 2017).

Nonostante queste informazioni sui fattori di rischio, sia la perdita di habitat naturali che il commercio di specie selvatiche sono in forte aumento. Sulla base di dati satellitari si stima che tra il 2001 e il 2018 siano stati persi globalmente 3,61 milioni di km2 di copertura forestale (un’area più grande dell’India), con un forte aumento della deforestazione nelle zone tropicali. Parallelamente il commercio sia legale che illegale di animali selvatici è cresciuto drasticamente. Oggi si stima che il 18% di tutti i Vertebrati terrestri (anfibi, mammiferi, rettili e uccelli) sia soggetta a commercio (Scheffers et al., 2019) ‒ in pratica una specie su cinque ‒ ed il traffico di specie monitorato dalla CITES è quasi quadruplicato in 40 anni, passando da 14 milioni di capi nel 1975 ai 49 milioni nel 2014 (Harfoot et al., 2018).

Le informazioni scientifiche sui rischi di insorgenza di malattie infettive di origine animale non equivalgono a una sfera di cristallo. Queste informazioni sono soggette a incertezza, spesso derivano da estrapolazioni e modelli, si basano su dataset in continuo aggiornamento e quindi vengono anch’esse continuamente aggiornate. Nessuno può dire ragionevolmente quando esattamente ci sarà la prossima zoonosi, da dove partirà precisamente, che impatto avrà. Però si conoscono, sulla base dei dati disponibili dalle precedenti epidemie, quali sono le aree a maggior rischio e quali sono le condizioni che determinano un aumento del rischio. Ignorare queste informazioni quando si pianificano attività di tipo socioeconomico (commercio di specie selvatiche, agricoltura, allevamenti, estrazione di materie prime ecc.) equivale a ignorare una mappa di rischio sismico quando si discute un piano regolatore.

Oggi ci troviamo a fronteggiare una crisi che per certi versi richiama alla memoria quelle drammatiche dei secoli scorsi (come l’influenza spagnola e la peste). Eppure per la prima volta nella storia dell’umanità esistono gli strumenti tecnologici (modelli statistici, dati satellitari, mappe di rischio, previsioni) per ragionare sulla prevenzione del rischio di insorgenza di malattie infettive di origine animale. Questi strumenti vanno migliorati, valorizzati e utilizzati se vogliamo anticipare crisi future invece di subirne le drammatiche conseguenze.

Bibliografia per approfondire

K. Jones et al., Global trends in emerging infectious diseases, in Nature, 2008, vol. 451, n. 7181, pp. 990-993

T. Allen et al., Global hotspots and correlates of emerging zoonotic diseases, in Nature Communications, 2017, vol. 8, n. 1124

M. Harfoot et al., Unveiling the patterns and trends in 40 years of global trade in CITES-listed wildlife, in Biological Conservation, 2018, vol. 223, pp. 47-57

B.R. Scheffers et al., Global wildlife trade across the tree of life, in Science, 2019, vol. 366, n. 6461, pp. 71-76

M. Di Marco et al., Sustainable development must account for pandemic risk, in PNAS, 2020, vol. 117, n. 8, pp. 3888-3892

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