Fino al XVIII secolo, i racconti dei viaggiatori che si avventuravano nelle lontane terre d’Oriente raramente mancavano di riportare la presenza di una serie di popoli mostruosi: gli sciapoda, uomini con un unico grande piede che usano (oltre che per camminare) per coprirsi dal sole quando riposano; i cinocefali, uomini con la testa di cane, che invece di parlare abbaiano; gli acefali, senza testa ma con il volto (occhi, naso, bocca) situato al centro del petto; gli antipodi, con i piedi rivolti all’indietro; gli iperborei, che vivono mille anni. Queste e altre numerose creature fantastiche, passate dai più antichi resoconti greci sull’India al Medioevo cristiano attraverso autori latini (Plinio, Solino), continuano a essere descritte dai viaggiatori come se avessero occasione di osservarle (Wittkower 1987), e finiscono per comparire persino nelle prime tassonomie scientifiche (il Systema naturae di Linneo, ad esempio, classifica quella “mostruosa” tra le “varietà” umane, antenate delle razze). L’esperienza e l’osservazione diretta soccombono all’autorità della tradizione e della parola scritta.

Questa storia mi è tornata in mente guardando un servizio televisivo del tg regionale dove si lanciava l’allarme per le “troppe persone ancora in giro”. Ripetuto migliaia di volte al giorno da tutti media, il messaggio, parte della campagna governativa #iorestoacasa, era accompagnato da immagini che non potevano essere in più stridente contrasto con quanto veniva affermato: una Roma deserta, in una calda giornata di sole di inizio primavera, talmente priva di presenze umane da evocare scenari da film post-apocalittico. La verità del messaggio era evidentemente così scontata da non avere bisogno di conferma da parte delle immagini.

Ma c’è davvero “troppa gente in giro”? Dalla mia limitata e personale esperienza di recluso che esce solo, di quando in quando, per procurarsi beni di prima necessità, direi di no. E le fotografie di “assembramenti” che trovo sui quotidiani, inquadrature dove l’uso del teleobiettivo schiaccia talmente la prospettiva da poter far sembrare affollato qualsiasi luogo, nel loro essere così palesemente artefatte sembrano anche meno convincenti delle riprese del servizio televisivo. Del resto, i dati diffusi da Google, che con Maps traccia il traffico sia urbano che extraurbano, segnalano una diminuzione in Italia di circa il 90%. Nonostante il numero elevato di sanzioni irrogate, le stesse forze dell’ordine attestano che le disposizioni governative sono piuttosto rispettate; qualcosa che pare persino stupefacente, considerato il loro straordinario impatto sulla vita delle persone, e il totale caos normativo e comunicativo che le accompagna (emblematica la vicenda del continuo cambiamento del modello di autocertificazione, dietro il quale si cela il passaggio da una sanzione penale – di dubbio fondamento giuridico – a una sanzione amministrativa, altrettanto abnorme ma forse meno infondata).

Semplicemente: “c’è troppa gente in giro”, perché tutti sappiamo che è così, come gli antichi sapevano che in India c’erano gli sciapoda e i cinocefali. O piuttosto, perché abbiamo bisogno di crederlo, come gli antichi avevano bisogno di credere alle “meraviglie d’Oriente”. In effetti, è solo a partire dalla necessità di credere, indipendentemente da ciò che può essere oggetto di personale esperienza, che proviene la forza del messaggio.

Nella breve nota Le (sens) interdit, Jean Pouillon (1993) affermava che la trasgressione è indispensabile per istituire la proibizione: non è sensato proibire laddove non c’è la possibilità di trasgredire, e la proibizione non esisterebbe affatto se non vi fossero effettivamente trasgressori. Se letta in questo senso, la credenza nella riluttanza della popolazione ad adattarsi alle misure governative rivela la sua necessità discorsiva: è la risposta all’emergenza nei termini di interdizioni e di politiche repressive a necessitare della riluttanza della popolazione piuttosto che il contrario.

Per un potere politico debole e confuso, ossessionato dai media, colto alla sprovvista dall’epidemia, che si è affidato alla risposta più facile e quasi automatica, quella repressiva “securitaria” (in perfetta continuità con il neoliberismo imperante; Wacquant 2006), la figura del trasgressore, sia esso il “runner”, il proprietario del cane che passeggia abusivamente, o il camminatore che si allontana indebitamente da casa senza giustificato motivo, è necessaria a legittimare la risposta: quella che Marco Olivetti, sull’Avvenire dell’11 marzo, ha definito «la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte».

Stupisce, semmai, che misure di tale gravità non siano state praticamente oggetto di dibattito pubblico. Raccomandate dagli “esperti” (virologi, epidemiologi, diventati star onnipresenti del panorama mediatico), la cui attuale dittatura non è affatto in contraddizione, ma è complementare alla incompetenza che domina nella nostra scadente classe politica, le misure sono state accettate di buon grado anche da intellettuali democratici con l’argomento secondo il quale il supremo bene della salute pubblica vale anche il sacrificio della libertà personale, purché a tempo determinato (così, ad esempio, Zagrebelsky su Repubblica). Argomento forse costituzionalmente ineccepibile, ma la cui validità è legata a un assunto assai fragile, e cioè la necessità e l’assenza di alternative. È davvero necessario, per contenere il virus, mettere un intero popolo agli arresti domiciliari, minacciando sanzioni durissime e sostanzialmente arbitrarie?

Il nesso logico tra l’uscire di casa e la diffusione del virus pare, infatti, nel migliore dei casi indiretto. Se il “distanziamento sociale” è considerato fondamentale per contenere il contagio, la detenzione casalinga è tutt’al più un mezzo per favorire il distanziamento (almeno in una parte dei casi, perché esistono anche le case affollate o altri luoghi, “case” di riposo o di detenzione ad esempio, dove il confinamento sembra favorire la diffusione del virus). Ma affermarne la necessità sarebbe come dire che, per evitare gli incidenti automobilistici, è necessario smettere di produrre automobili. Ineccepibile, forse, ma un tantino fuori misura, e con controindicazioni pratiche non indifferenti.

Assai più chiaro pare invece il nesso tra la diffusione del virus e alcune scelte politiche sbagliate o evidenti carenze organizzative, come, per esempio, quella di non predisporre percorsi separati per i malati di Covid-19 (ci si è arrivati con grande ritardo e non ovunque), di costringere i malati paucisintomatici a trascorrere in casa il periodo della malattia (rischiando, tra le altre cose, di contagiare tutti i coabitanti), di non sottoporre a esami diagnostici il personale sanitario, o di limitare i test a coloro che presentano sintomi avanzati. Responsabilità che farebbero sembrare l’ingiunzione di restare a casa e la persecuzione dei trasgressori finalizzate alla ricerca di un capro espiatorio almeno quanto all’effettivo contenimento del virus.

Se valutata da questo punto di vista l’efficacia della campagna sembra notevole. La caccia all’untore che si è scatenata – una antica passione italiana (Manzoni docet) che meriterebbe l’iscrizione nelle liste del patrimonio immateriale a fianco della pizza e della mozzarella – ha mobilitato in pieno una popolazione già da anni abituata ad attribuire i numerosi problemi sociali ed economici del Paese a capri espiatori (primi tra tutti i migranti); in molti hanno partecipato con gusto a esecrare, talvolta non solo via social media, ma anche con azioni dirette nelle strade, coloro che, camminando, correndo o portando a spasso i bambini o i cani, contribuivano irresponsabilmente a diffondere il morbo.

Bibliografia per approfondire

R. Wittkower, Allegoria e migrazione dei simboli, Einaudi, Torino, 1987

J. Pouillon, Le cru et le su, Seuil, Paris, 1993

L. Wacquant, Punire i poveri, Derive/approdi, Roma, 2006

A. Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, Einaudi, Torino, 2012

Immagine: Roma, Italia, 12 marzo 2020: la polizia controlla i movimenti dei turisti intorno a San Pietro, in Vaticano. A seguito della pandemia di Coronavirus, l'Italia è in lockdown. Crediti: Em Campos / Shutterstock.com

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