In questi giorni che segnano una crisi epidemica mondiale, il virtuale diviene reale come non mai e nello spazio drammatico che ne deriva ci stiamo tutti impegnando a comunicare la nostra opinione sugli eventi, quasi a contribuire a una doxa collettiva sul Coronavirus. Nel quadro dell’ampio dibattito globale, sono state rivolte strane accuse al filosofo Giorgio Agamben, in particolare al breve scritto apparso su un quotidiano italiano e intitolato Contagio. Secondo i detrattori, Agamben avrebbe “negato” l’esistenza dell’epidemia al fine di poter applicare meccanicamente la propria teoria sullo stato di eccezione, cioè la sospensione del diritto che tende a appiattire l’emergenza sulla normalità per fare salva la “nuda vita”, quella tutta esposta al potere sovrano, sia con il paradigma della sicurezza sia con quello della cosiddetta “biopolitica”.
Quest’ultimo concetto, notoriamente di successo da decenni nelle scienze sociali italiane e internazionali, fu rilanciato dal filosofo francese Michel Foucault negli anni Settanta del secolo scorso – va ricordato che ne aveva parlato prima il grande studioso svizzero Jean Starobinski – per designare: «Un’analisi spregiudicata dei modi concreti in cui il potere penetra nel corpo stesso dei soggetti e nelle loro forme di vita», come proprio Agamben scriveva nel 1995, in un libro che assume il titolo dell’intera sua opera in sette densi volumi pubblicati in oltre vent’anni: Homo sacer. Circa 10 anni dopo, al volgere del nuovo millennio, un altro filosofo italiano, Roberto Esposito, ha disegnato l’estensione contemporanea del paradigma biopolitico a partire da una domanda lasciata (volutamente?) insoluta da Foucault: perché la politica della vita rischia di volgere sempre verso il suo opposto? Non è un caso che il nazifascismo necropolitico faccia più che capolino nei fecondi lavori di Agamben ed Esposito a spiegare come in Europa storicamente le prassi biopolitiche si siano mosse all’ombra di un male politico assoluto.
In verità, proprio la sospensione della domanda ha favorito due opposte visioni della biopolitica: quelle che la vedono soltanto dal versante di un potere opprimente, giungendo a sfiorare ideologismi settari, e quelle che tendono a valutarla euforicamente identificandola con le istituzioni del sistema sanitario nazionale. Personalmente introdurrei qui forse a unire, il ricordo del sopravvissuto alla strage nazista nascosto dal corpo morto di sua madre, che amò la vita per averla sentita nei fili d’erba bagnata che toccavano i suoi piedi nudi.
Eppure resta l’impressione che oggi ci si trovi di fronte a una sorprendente e violenta forma di polarizzazione argomentativa e di critica della critica, aggravata dalle aggressioni più volgari rivolte ad Agamben. A questa polarizzazione ci si deve sottrarre. È la drammaticità del momento a richiederlo.
La scorsa settimana ho chiamato un collega del Nord Italia per proporgli una recensione per una rivista di antropologia medica che facciamo a Perugia. Non immaginavo che vivesse a Bergamo. L’ho sentito provato e preoccupato. Ora sta meglio. Da quella città abbiamo ricevuto immagini di camion militari che trasportano le salme di morti che non hanno neanche potuto godere del compianto. «Si muore da soli» è, infatti, l’affermazione più condivisa in questa fase nei sistemi informativi, dolentemente pronunciata dagli eroici professionisti dell’assistenza. Questa assenza di cordoglio rende l’esperienza di quella morte sostanzialmente disumana, poiché la riduce a mero problema di smaltimento. Forse risiede in quei camion quel che resta di Auschwitz?
Agamben non vuole certo figurare come “negazionista”. Le sue sono una specie di virgolette alte, una manna per il pensiero, perché ci invitano a distinguere la parola e la cosa, la vita umana e i dispositivi storici – culturali, sociali, istituzionali – che puntano ad espropriarla, ingabbiandola. Non è che se dico agli studenti che «la realtà è una costruzione sociale» intendo significare che la realtà sia inesistente! Ciò vale anche per la nozione di “invenzione” dell’epidemia. A mio avviso possono pensare questo solo coloro che, per partito preso, vogliano schiacciare per sempre la mosca di Wittgenstein. Mi spiego meglio.
In uno dei brevi paragrafi delle sue Ricerche filosofiche, il grande filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein, allude ad alcuni esperimenti di cattura delle mosche che, al suo tempo, erano messi in atto attirando gli insetti in una bottiglia per bloccarli nel vetro trasparente. Con quell’esempio, egli intendeva dire che lo scopo della sua filosofia, per tornare al suo aforisma, consisteva nel mostrare alla mosca l’uscita dalla trappola, indicando metaforicamente a tutti noi la fessura attraverso la quale evadere dalla gabbia trasparente del linguaggio. Sembra, infatti, che oggi possa parlare solo chi voglia avere sempre ragione e che, paradossalmente, nel momento della massima incertezza, non riesca a coltivare il minimo dubbio. Eppure proprio Wittgenstein ci aveva ammonito: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» e Agamben ci dà più di uno strumento per non essere vittime del silenzio.
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Bibliografia per approfondire
Ludvig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1967 (ed. originale 1953)
Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone. Homo sacer III, Bollati Bornghieri, Torino, 1998
Roberto Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004
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