23 marzo 2020

Storie virali. Ibridi

 

«Se è possibile antropologizzare il mondo moderno, lo è perché gli è capitato qualcosa». Con queste parole Bruno Latour, nel suo Non siamo mai stati moderni (2009, p. 20), intendeva legittimare uno sguardo antropologico sulla modernità e la sua capacità di comprendere “ibridi” attraverso la costruzione di “reti” conoscitive che connettono campi del sapere altrimenti separati.

L’epidemia oggi in corso (quel “qualcosa” che ci sta capitando) è un “ibrido” che mette in luce trame e connessioni (salute e società, biologia ed economia, politica ed ecologia, geopolitiche mondiali e immaginari globali), che ‒ ben chiare da tempo ad epidemiologi politicamente avvertiti come Paolo Vineis travalicano le moderne partizioni disciplinari. Reti che può forse valer la pena osservare anche attraverso uno sguardo antropologicamente avvertito.

 

Quel che colpisce è il carattere non lineare dei processi innescati. Oramai 15 anni fa Bruce Kapferer parlava del “ritirarsi del sociale” come conseguenza dell’imporsi in sfere sociali decisive di un individualismo economicista e riduzionista. Sembra ora evidente che tra gli effetti dell’epidemia di Covid-19 vi sia quello di mettere in scena un “ritorno del sociale”. Riemerge con forza la centralità della classe: chi lavora a casa e chi invece al lavoro deve andarci fisicamente; chi può isolarsi in seconde case di campagna e chi invece deve vivere in pochi metri quadrati nelle periferie urbane. Riemerge la produzione (un altro rimosso dalle retoriche del neoliberismo): chi produce? In quali condizioni si deve o non si deve produrre ai tempi del Coronavirus? Riappaiono nella discussione pubblica e in quella mediatica gli operai nelle fabbriche, i camionisti o i riders, quella forza lavoro la cui vitale presenza è stata per decenni offuscata dalla narrazione della libera circolazione delle merci. E ancora: cosa si è prodotto e cosa occorre ora produrre: profumi o disinfettanti, respiratori o strumenti per la chirurgia estetica, F 35 od ospedali d’urgenza?

 

Il sociale che riemerge si lega inevitabilmente al politico, sia nella sua declinazione biopolitica (vedi contributo di Schirripa a questa rubrica), sia in quella più tecnico-istituzionale: chi ha smantellato la sanità pubblica, chi ha prodotto il drammatico scarto di funzionamento dei sistemi sanitari regionali? Ma anche ecologico-politica: come si produce il cibo che mangiamo, magari impiantando monoculture industriali tagliando foreste? Che nesso c’è tra produzione capitalista del cibo vegetale e animale e pandemie?

 

Insieme a simili riemersioni assistiamo anche ad alcune evaporazioni: penso all’economia dell’effimero e a tutti quei processi che nell’economia politica neoliberista trasformano in merci le dimensioni conoscitive e culturali (turismo, processi di patrimonializzazione), quelle vitali (sport) e quelle estetiche (sistema della moda, sistema della tipicizzazione alimentare: “mi chiamo Nina, sono una taste-hunter” recita una pubblicità che non riesco a non sentire oscena, trasmessa dopo l’elenco quotidiano dei morti per il virus). “Ibridi”, “reti”, riconfigurazioni inattese di piani, nessi, problemi e competenze che, quantomeno nella fase esplosiva di questa pandemia, sembrerebbero mettere ai margini, rivelandone la strutturale incapacità analitica, le fino ad oggi imperanti prospettive cognitiviste e psicologiche: cosa ha da dire, ad esempio, il cognitivismo su questa pandemia?

 

Insieme a simili tendenze, altre ne emergono, che configurano assemblaggi diversi, anche contraddittori rispetto a quelli sopra tratteggiati. Ne segnalo due. Ricompare il “magico-religioso” (messe antivirali, del tutto in linea con la vischiosa storia culturale del nostro Paese; riattivazione di griglie simbolico-classificatorie volte ad includere ed escludere ‒ vedi contributo di Carlino a questa rubrica ‒ ma anche innovative evocazioni new age): riapparizioni comprensibili, in fasi di perdita di efficacia della scienza, tecniche di protezione simbolica ed estensione oltre misura dell’esigenza di senso e controllo. Si ri- o iper- mediatizza (come del resto dimostra lo spazio nel quale scriviamo/leggiamo) quella socialità che abbiamo visto riemergere (lezioni on-line, ore passate sui social). Comprendo e solo in parte condivido i timori espressi da Agamben (vedi qui) e altri, che vedono in questo il rischio di una fantasmizzazione del sociale ad uso di progetti di estensione permanente di stati di eccezione. Resto più cauto, però, perché i processi sociali, visti da vicino, sono sempre meno lineari di quanto non appaiano a sguardi teoretici. Mio figlio, 17 anni, al penultimo anno di liceo classico, a parte lo sport nel quale eccelle (il calcio) presenta tutte le caratteristiche (per me peggiori) della sua generazione: scarse letture (purtroppo), tanta tecnologia, giochi e una parte importante della socialità on-line. Siamo chiusi in casa, dopo la sua ultima giornata di scuola e la sua ultima partita di campionato. Il calcio gli manca, certo, e io immaginavo che la “reclusione” gli potesse riuscire pesante. E invece no: la sua socialità continua on-line, sente compagni di classe e amici, gioca con loro come giocava prima dell’epidemia. Semplicemente è più “adattato” di me ad una socialità mediatizzata.  È un male o un bene, questa sua capacità? Non so, dobbiamo rifletterci, così come varrà la pena di ragionare con attenzione sugli ibridi, le reti e le contraddizioni che questa pandemia mette davanti ai nostri occhi. Riflettere per provare ad agire su di esse e per (ri)costruire aggregazioni per una politica nuova.

 

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Bibliografia per approfondire

 

Bruce Kapferer, The Retreat of The Social: The Rise and Rise of Reductionism, New York, Berghahn, 2005

Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni, Milano, Eleuthera (I ed. francese 1991), 2009

Paolo Vineis, Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione, Torino, Codice, 2014

Giorgio Agamben, Contagio, 2020

 

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Immagine: Effetto Coronavirus, via Ugo Bassi in una città deserta, Bologna (2020). Crediti: pio3 /Shutterstock.com

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