Il 31 marzo il Wall Street Journal ha pubblicato una tribuna intrigante in questo periodo di pandemia dal titolo We All Need OCD Now. L’autore, Elias Aboujaoude, psichiatra dell’Università di Stanford, offre una prospettiva quanto meno originale sulla situazione: oggi il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) non sarebbe tanto una malattia “che si ha” (è l’autore stesso che lo sottolinea), quanto uno stile di vita imposto dalle autorità sanitarie e che dobbiamo adottare se vogliamo sopravvivere. Aboujaoude traccia quindi un ritratto delle persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo come degli iperspecialisti del distanziamento sociale e del lavaggio delle mani.

Se seguiamo il suo ragionamento, le persone che sono sopraffatte dalle ossessioni della contaminazione e che non riescono a smettere di lavarsi le mani decine di volte al giorno, secondo rituali molto precisi (si tratta di compulsioni, la risposta comportamentale che dovrebbe alleviare l’ansia indotta dai pensieri ossessivi), a volte fino al sanguinamento o fino  non poter lasciare la propria casa, avrebbero infatti acquisito dei tratti adattativi che consentiranno loro di superare questo episodio epidemico. Inoltre, avrebbero adottato questi gesti salvavita pandemici con largo anticipo e indipendentemente dalle istruzioni delle autorità sanitarie. L’argomento riprende la teoria evolutiva del DOC, che vede la malattia come il punto estremo di un tratto adattativo che è stato presente in tutta la storia dell’uomo, proteggendoci dai germi mortali e dalle malattie contagiose. Nel processo di selezione naturale, l’ansia associata alla contaminazione avrebbe costituito quindi un vantaggio significativo nella competizione tra individui.

Ebbene no.  Le persone invase da ossessioni e compulsioni non sono certo degli specialisti in igiene e misure barriera alla diffusione di virus. Non hanno acquisito generazione dopo generazione una “disciplina” (per usare il termine di Aboujaoude) che li protegga. Non sono gli eredi passivi di un sapere ancestrale che hanno incorporato e che li renderebbe più o ugualmente competenti delle nostre autorità sanitarie. E, no grazie, non abbiamo bisogno di “un piccolo DOC in questo momento”.

L’errore fondamentale di questo ragionamento è quello di occultare un elemento centrale delle teorie contemporanee del DOC elaborato dalle scienze cognitive: le ossessioni sono pregiudizi cognitivi nella valutazione della realtà e le compulsioni non sono risposte appropriate, necessarie, efficaci o razionali all’ansia. Ossessioni e compulsioni sono pensieri e azioni assurdi, risposte inappropriate che travolgono gli individui e che sovente non sono in grado di controllare. La caratteristica delle compulsioni è proprio la ripetizione patologica che fa perdere loro ogni significato. Non sono adattamenti evolutivi che proteggono, bensì pensieri e comportamenti invadenti che sono causa di immensa sofferenza.

Uno psichiatra universitario avrebbe potuto approfittare di una tribuna di un così prestigioso giornale per mettere in discussione questa sofferenza che trova un’eco così particolare in tempi di reclusione e pandemia. Il suo articolo avrebbe potuto guardare all’ingiunzione contraddittoria che le persone affette da DOC devono affrontare, tra l’ipervigilanza verso un rischio reale di contaminazione e di rischio vitale e il controllo delle loro ossessioni e compulsioni. Avrebbe potuto estendere, come altri, il suo interesse alla situazione delle persone che soffrono di gravi disturbi mentali e alla difficoltà di aiutare e monitorare questa popolazione vulnerabile in questo periodo di isolamento. O ancora più in generale interessarsi alle conseguenze del confinamento sulla nostra vita psichica, poiché cominciano a sorgere le preoccupazioni (supportate dai primi studi) sulle sue ripercussioni a medio termine sulle popolazioni.

Infine, una tale tribuna avrebbe potuto affrontare quello che qui sembra essere il vero filo conduttore: l’ansia che condividiamo in risposta all’incertezza della nostra situazione e i dubbi che ci assillano quando non siamo in grado di misurare il valore delle nostre azioni, l’efficacia delle nostre azioni, di ciò che dovremmo fare individualmente e collettivamente per proteggerci. Dalla Francia da dove scrivo, se questa incertezza e questi dubbi derivano innanzitutto dal fatto che sappiamo poco del virus che si sta diffondendo, sono accentuati dalle costanti contraddizioni che attraversano le misure adottate o le raccomandazioni delle nostre autorità e che lasciano il campo aperto a tutte le interpretazioni (dobbiamo generalizzare l’uso di maschere, pulire il cibo e gli imballaggi, disinfettare le scarpe, preferire i mercati aperti o i supermercati chiusi, ricominciare a fumare, chiedere certe medicine piuttosto che altre ecc.). In secondo luogo, le misure di deconfinamento che vengono annunciate, già indebolite da questa conoscenza troppo fragile, non fanno che aumentare questa incertezza e l’ansia che ne deriva. Finora, e per la maggior parte dei Paesi europei, le politiche pubbliche messe in atto in risposta alla crisi sanitaria sono state caratterizzate dall’impreparazione, l’improvvisazione e la disattenzione che hanno rumorosamente contraddetto i modelli di gestione e di “preparazione” che queste situazioni richiedono e che sono stati pertanto internazionalmente pensati e organizzati da una decina di anni. Le misure adottate, come il contenimento, scollegate da politiche mirate di test e di isolamento, prese senza concertazione hanno spostato la responsabilità delle nostre azioni quotidiane e le loro conseguenze gravi sulle scelte individuali delle persone, a dispetto di un progetto collettivo. Quindi, se viviamo l’esperienza di un regime di vita comune, questo è senz’altro caratterizzato dall’incertezza, dall’ansia, dall’irrazionalità delle azioni e da una conoscenza incompleta... ma no, non abbiamo bisogno del DOC.

La versione originale in francese del presente articolo è disponibile qui

Bibliografia per approfondire

Judith Rapoport,  The Boy Who Couldn’t Stop Washing, Penguin Books, New York, 1989

Biosecurity Interventions Global Health and Security in Questions, a cura di Collier Stephen, Andrew Lakoff, Columbia University Press-SSRC, 2008

Lennard Davis, Obsession: A History. Chicago, University of Chicago Press, 2008

Baptiste Moutaud,  DSM-5 and the Reconceptualization of Obsessive-Compulsive Disorder. An Anthropological Perspective from the Neuroscience Laboratory, in The DSM-5 in Perspective: Philosophical Reflections on the Psychiatric Babel, a cura di S. Demazeux, P. Singy, Dordrecht, Springer, 2015, pp. 225-238

Immagine: Onna yu (Donne nei bagni pubblici), stampa a colori di Kiyonaga. Crediti immagine: Torsodog [Pubblico dominio], attraverso commons.wikimedia.org

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#mani#distanziamento sociale#ansia