A seguito delle norme di confinamento introdotte in diversi Paesi europei, sono state subito sollevate preoccupazioni circa le conseguenze sul comportamento e gli effetti psicologici causati da tale misura. Perdita della libertà di movimento, violenze relazionali, incertezza del futuro: l’elenco delle preoccupazioni e delle minacce alla nostra vita potrebbe essere così allungato. È in questa occasione che il termine ipocondria ha fatto la sua comparsa, un termine tuttavia utilizzato da molto tempo nei libri di medicina. In passato l’ipocondria è stata interpretata in modi molto diversi. Alcuni autori hanno richiamato l’attenzione su questo grave fenomeno, accostandolo ad altre ben note patologie come l’isteria o certe forme di malinconia. Altri, invece, hanno perpetuato una vulgata che ad essa si riferisce piuttosto in termini irridenti e derisori. Dopo Freud gli psicoanalisti l’hanno fatta propria e ha ancora i suoi difensori, acquisendo inoltre una presenza costante nella letteratura e nella narrativa personale (Repetti, 2000). Alcuni arrivano persino a immaginare che l’ipocondriaco sia una figura che riflette lo spirito del nostro tempo: l’ipocondria sarebbe una malattia di un Occidente disincarnato e narcisistico. Il quadro clinico fornito non è necessariamente molto accurato e corrisponde al disordine classificatorio della psichiatria, un disordine che Foucault caratterizza come un «giardino delle specie». Così può benissimo riferirsi a una forma di ossessione, quella di sapere di essere malato o di mostrare uno stato d’animo dolente, senza tuttavia alcun rischio di alienazione. Da parte mia, opterò per la definizione adottata dallo psichiatra francese Henri Ey (1900-1977) che parlava di «una valutazione peggiorativa dello stato di integrità o di salute del corpo».

L’ipocondria di questo periodo di confinamento è uguale a quella descritta sin qui? Senza dubbio la forma asintomatica che Covid-19 può avere è una sorta di terreno meraviglioso per fantasie preoccupate e fertili. Ma la probabilità di contrarre un virus è prevista dagli esperti e non è una questione di immaginazione. Allora perché il termine viene usato dai professionisti della salute?

Innanzitutto perché è spesso associato a emozioni o stati emotivi come la paura o l’ansia, parole ricorrenti fin dall’inizio del confinamento. È importante ricordare alla popolazione “normale” che le loro reazioni sono, appunto, la normale conseguenza della situazione in cui si trova. Mi sembra poi che sia utilizzata come un atto di riconoscimento. È opportuno ascoltare, riconoscere, mostrare comprensione, piuttosto che cercare di formulare una diagnosi precisa. Inoltre, prima del confinamento, gli specialisti erano propensi a considerare che, se la vera malattia non esiste, la sofferenza dell’ipocondriaco esiste davvero. Inoltre, l’idea che il confinamento non abbia effetti deleteri è scarsamente considerata e si teme soprattutto di sottovalutarne le difficoltà. È a questo proposito che viene evocato il tempo di guerra: finita la guerra, gli effetti psichici possono essere più visibili. Simili effetti potrebbero essere presto osservati alla fine del confinamento.

L’ipocondria può fare massa? L’espressione “ipocondria collettiva” non è usata molto spesso; è comunque molto più rara di espressioni come, per esempio, “isteria collettiva”. Sembrerebbe che la folla, in quanto tale, si presti poco all’ipocondria. Ma poiché i virus destabilizzano i corpi sociali, forse assisteremo a una nuova forma di ipocondria, che finirebbe per alimentare l’emozione predominante delle società persuase di essere minacciate dalla malattia. Ci sentiremmo male senza poterlo provare, ma ‒ al tempo stesso ‒ nessuna autorità medica oserebbe sottovalutare questa possibilità. La discussione sulla durata (forse relativa) dell’immunità dei soggetti che sono stati infettati e la discussione sulla aleatorietà delle informazioni comunicate dai test permettono di alimentare la convinzione dell’individuo di non essere entrato nella malattia, ma di non esserne neanche uscito. Vedremo società che si affrettano a fare tutto il possibile per essere risparmiate da un male che incoraggia la circolazione dell’immaginazione? In nome della vulnerabilità intrinseca della condizione umana spesso ricordata in questi giorni, dobbiamo considerare l’ipocondria come la nostra nuova esistenza sociale? Non è tanto una biopolitica dall’alto di cui saremmo testimoni, quanto piuttosto di un biopotere esercitato “dal basso”. Ci troveremmo allora di fronte all’emergere di un governo della paura per rispondere meglio all’imperativa richiesta di regolazione delle nostre sofferenze. Una situazione insolita, è vero, ma che era stata prevista molto tempo fa da A. de Custine (1790-1857) dopo il suo viaggio in Russia, Paese della tirannia consensuale, dove le autorità avevano instillato l’idea della sofferenza, provocando così un lungo periodo di ipocondria collettiva.

La versione originale in francese del presente articolo è disponibile qui

Bibliografia per approfondire

Astolphe de Custine, La Russie en 1839, Paris, Amyot, 1843

Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli 1963 (ed. originale 1961)

Paolo Repetti, Lamento di un giovane ipocondriaco, Milano, Mondadori, 2000

Henri Ey, L’hypocondrie, in Etudes psychiatriques, n°17, vol. 2, Perpignan, Crehey, 2006 (ed. originale 1952), p. 454

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