«C’era l’opera dei pupi di Don Nicolao», ricorda Folco Evangelisti rispolverando le storie  raccontategli dal padre. « “C_on un colpo di spada_ Orlando ammazza 30 saraceni”, narrava il puparo. E dal pubblico qualcuno rispondeva, in siciliano: “Sunnu troppi Don Nicolao, scalamu!”, (sono troppi, abbassa il numero) ».

Evangelisti, classe 1933, ha origini toscane ma ha trascorso una vita circondato da siciliani, da cui ha imparato il dialetto. E prosegue: «“C_on la sua durlindana Orlando ammazza 20 saraceni”, diceva dunque Nicolao. Dal pubblico invece: “S_calamu, sunnu troppi!”. “E diccillu tu ca sunnu troppi (e diglielo tu che sono troppi), gran figlio di ‘buonadonna’!”, gridava Don Nicolao». La fine dello spettacolo era segnata da un musicante che suonava un pianoforte a manovella. «Si chiamava Peppino, era sempre ubriaco».

Questo ‘quadretto’ dei primi decenni del Novecento potrebbe raccontare Palermo o Catania, se non provenisse da Tunisi: qui Evangelisti era di casa. «Sono nato nella medina la notte del ventisettesimo giorno del Ramadàn, mentre il Bey passava per andare alla moschea, accompagnato dalla musica».

C’erano almeno tre teatri dei pupi a Tunisi, l’ultimo dei quali sarebbe scomparso nel 1941. Ma solo dopo l’indipendenza della Tunisia nel 1956, quando molti siciliani lasciarono il Paese, «mio padre comprò dagli opranti centinaia di marionette che gli erano rimaste. Del teatro di Don Nicolao comprammo anche gli arredi, il pianoforte e le scenografie», spiega ancora l’anziano, che aveva uno dei più importanti negozi di antiquariato della capitale.

Immagine 0Folco Evangelisti, Hammamet, 7 giugno 2021 (foto di Jacopo Lentini)

Lui è stato l’ultimo a gestire, fino al 1980 circa, la storica bottega di famiglia al numero 48 di rue Jamaa Ez Zitouna, che dalla Porta di Francia conduce alla moschea Zitouna, collegando due luoghi simbolo della città. Il negozio sfoggiava una vasta collezione di pupi siciliani, che furono introdotti in Tunisia nell’Ottocento dagli emigrati siculi.

«Fino ad allora il teatro locale non conosceva questo tipo di marionetta», spiega Habiba Jendoubi, marionettista e docente dell’Istituto superiore di arti drammatiche di Tunisi (ISAD). «Prima c’erano il Karakouz, il teatro delle ombre di origine turca, e i Guignol, i burattini a guanto introdotti dai francesi».

Anche in Tunisia l’opera dei pupi narrava le avventure del ciclo carolingio (oltre alle farse, commedie di vita siciliana). «Molti tunisini erano sorpresi dal fatto che i siciliani si interessassero alle gesta dei paladini di Francia, ignorate dagli stessi francesi», spiega l’antropologa Daria Settineri. «Questo tipo di spettacolo s’inserì in modo fecondo nel clima culturale tunisino contribuendo alla nascita di opranti locali con delle proprie specificità». Nacque infatti anche una versione araba dell’opera dei pupi, che scomparve a metà degli anni Trenta.

«Era nel quartiere Halfauoine, durante il Ramadan, dove si mangiava anche la carne di cammello», spiega Evangelisti, ricordando ancora le storie del padre. Secondo lo scrittore tunisino Mohamed Aziza, questi spettacoli avevano un copione diverso da quello tradizionale: «raccontavano dei generali ottomani impegnati a difendere il territorio tunisino dalle velleità coloniali di italiani e inglesi nell’Ottocento, rimarcando la differenza religiosa tra il difensore turco e gli invasori cristiani». La Tunisia, infatti, è stata sotto il dominio turco-ottomano dal 1574 al 1881, quando fu invece la Francia a instaurarvi il protettorato.

Fino alla metà degli anni Novanta Folco Evangelisti ha avuto altri due negozi di antichità, a Tunisi e Hammamet, e per decenni ha venduto pupi siciliani “di Tunisia” in tutto il mondo, anche a personalità dello spettacolo e del cinema. «Harry Belafonte, Curd Jurgens e persino all’attore Pierre Brasseur. Lui mi chiamava e diceva: “arrivo da Parigi domenica, mettimene da parte due”. Non posso neanche ricordare quanta gente veniva da me per ammirare i pupi».Immagine 1Mappa della “piccola Sicilia” di Tunisi (realizzazione: Jacopo Lentini)

La piccola Sicilia

Tra Avenue de Carthage e la laguna, nel pieno centro di Tunisi, in pochi isolati si concentrano diversi palazzi dall’architettura coloniale. «Pochi ricordano che sono di manovalanza italiana e le nuove generazioni non sanno che questa era la “Piccola Sicilia”», spiega Sergio Bertolino, sulla sessantina, l’ultimo di origini italiane rimasto nel quartiere. La sua officina di torneria è qui da oltre cent’anni perché fu il bisnonno originario di Favignana ad aprirla. Come lui, numerosi siciliani   vissero nella zona.

Da non confondersi con l’omonimo quartiere de La Goulette, municipalità portuale di Tunisi, la Piccola Sicilia della capitale ha un’aria di decadenza che la rende affascinante. I balconi in stile liberty sono il colpo d’occhio. In muratura bianca ingiallita e mezzi diroccati.

Bertolino ha tre nazionalità: tunisina, francese e italiana. È nato a Tunisi, ha trascorso più tempo in Francia che in Italia e parla meglio francese che italiano, «ma ancora oggi la mia identità è italiana», spiega lui. «Ho sempre vissuto tra gli italiani».Immagine 2Un palazzo dall’architettura italiana nella “piccola Sicilia”, angolo rue Ibn Khaldoun / rue Oum Kalthoum, Tunisi, 30 giugno 2021 (foto di Jacopo Lentini)

La collettività italiana in Tunisia, composta in maggioranza da siciliani, ebbe molto rilievo culturale ed economico. Si stima che nel 1938 fosse di circa 150.000 persone, ma si ridusse notevolmente a partire dagli anni Quaranta, quando il protettorato, intimorito da questa presenza ingombrante, ne incrementò le politiche di “francesizzazione” introducendo le naturalizzazioni forzate. Finché nel maggio del 1943, alla fine della guerra in Tunisia, le autorità francesi chiusero ogni istituzione italiana, come scuole, ospedali, teatri e giornali.

«Venivano chiamati “carne venduta” gli italiani naturalizzati francesi», spiega con accento siculo Rolande Saadia, tunisino di 84 anni, ricordando la rivalità che esisteva tra la due comunità. Saadia ricorda bene anche i nomi dei siciliani che abitavano intorno alla sua officina di bobinaggio, che ha rilevato negli anni Settanta da un italiano con cui lavorava.

«Accanto c’era Cardinale, campione di Tunisia di ciclismo negli anni Sessanta, e non lontano Dainotto, che riparava le pompe diesel ed era uno dei grandi signori della meccanica. Qui la manodopera italiana era preferita a quella tunisina e i tunisini erano più in sintonia con gli italiani che coi francesi».

Le tracce, non la memoria

Passeggiando per i suq più turistici della medina di Tunisi si può trovare in vendita una marionetta  dal volto baffuto di colore arancione. Ha un’armatura leggera e una sciabola, le braccia di stoffa e la scescia, il tipico copricapo tunisino di colore rosso. Adel Aschi la realizza da anni nel suo atelier de La Goulette e ne racconta l’origine: «all’inizio degli anni Sessanta mio padre Achmi faceva il rigattiere e in una cassa di metallo trovò un vecchio pupo siciliano. Lo incuriosì e provò a costruirne uno simile, reinventandosi come artigiano. Ma vi diede le sembianze di Ismail Pacha, un condottiero ottomano. Così è nato il pupo tunisino».Immagine 3Adel Aschi nel suo atelier, La Goulette, Tunisi, 16 giugno 2021 (foto di Jacopo Lentini)

«È ispirato ai pupi siciliani, di cui si vedono le tracce nella struttura degli arti ma di cui manca la memoria, che ricorda invece la tradizione turca, quella più cara al teatro tunisino», spiega Habiba Jendoubi. «Questa marionetta però non è mai stata utilizzata per gli spettacoli, non ha le aste per essere manovrata ma solo un gancio per essere appesa. È rimasta un pezzo di artigianato».

Secondo l’esperta, dopo la partenza dei siciliani dalla Tunisia è rimasto ben poco dell’esperienza del teatro dei pupi. E nella letteratura se ne trovano solo rare testimonianze, come quella di Raoul Darmon, erudito tunisino, che in un articolo del 1951 intitolato Le marionette a Tunisi scriveva così: «il pubblico non era esclusivamente italiano, tutt’altro. Molti nostri connazionali hanno seguito queste esibizioni assiduamente [...] poiché sensibili all’omaggio reso alle virtù francesi attraverso queste “bambole” italiane».

Se infatti l’opera dei pupi ignorava del tutto il sentimento antifrancese, lo stesso valeva per i giovani spettatori italiani. Darmon li ricorda nominare i personaggi degli spettacoli nel parlare quotidiano: «È commovente sentire questi ragazzini di strada dire nel loro dialetto cose come: “Mamma non sto mentendo, voglio essere leale come Orlando”, oppure “Ehi, non giocare con il nostro compagno Tal dei tali, è un Gano” (ovvero un disonesto, riferito al Gano di Maganza,  traditore di Orlando), e ancora, parlando di una fanciulla senza pudore: “S_i crede Alda la bella_” (sposa di Orlando)».

Immagine 4Pupi siciliani ritrovati a Tunisi dalla fondazione Orestiadi a inizio 2000, Tunisi, 10 giugno 2021 (foto di Jacopo Lentini)

È solo nel 2000 che i pupi siciliani riapparsero a Tunisi, ma non al teatro. In quell’anno la fondazione Orestiadi di Gibellina (TP) inaugurò nella capitale una sede distaccata del Museo delle trame mediterranee, un’esposizione di opere e manufatti di epoche diverse, rappresentanti le interazioni culturali tra la Sicilia e il Nordafrica.

Presso il Dar Bach Hamba, storico palazzo della medina che divenne noto come “Casa Sicilia”, Orestiadi esibì una dozzina di marionette che furono ritrovate ancora nella medina. «Fino ad allora i pupi erano scomparsi dalla circolazione, nel corso del tempo molti furono rubati da collezioni private. Noi ne trovammo alcuni malandati nel retro di varie botteghe, negli anni precedenti l’apertura del museo», spiega Franck Gabriele, restauratore di antichità a Tunisi ed ex responsabile di Orestiadi. Ma dalla chiusura di Casa Sicilia nel 2014 i pupi sono rimasti in un magazzino di periferia, non più fruibili dal pubblico.

I pupi siciliani “di Tunisia” raccontano dunque l’italianità in Nordafrica, che fu tanto difesa dagli emigrati siculi e che in preda alle diatribe politiche con la Francia fu vittima di un’amnesia storica dagli anni Quaranta. Secondo Jendoubi «queste pupi sono un tesoro, un pezzo di storia che vorremmo riavere indietro».

Immagine di copertina: Folco Evangelisti vende un pupo siciliano nel suo negozio di Hammamet, negli anni Settanta (per cortesia di Folco Evangelisti)

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