Tasmania, di Paolo Giordano, pubblicato da Einaudi, è un romanzo che descrive il nostro tempo e apre una finestra sul futuro che arriverà: sarà meno graduale che in passato, precipiterà come ci hanno insegnato gli ultimi anni che abbiamo vissuto, pieni di una realtà che ha fagocitato le storie di ogni tipo, così vorace che in molti – almeno alcuni, che di storie vivevano – si sono chiesti che senso potesse avere ancora la finzione, quanto senso ancora potessero avere le storie inventate in un’epoca che ci chiedeva prepotentemente un’assunzione di realtà. Ci sono fasi della storia più dense di altre, la nostra è una di queste.

Il romanzo è scritto con la consapevolezza maturata durante la pandemia, ma parla degli anni, immediatamente precedenti, del terrorismo in Europa, parla delle paure e delle angosce che ci circondano, parla dell’inesorabile necessità di farci i conti, di come sopravvivere, anzi di come vivere all’interno di un mondo così soggetto a tensione, così preoccupato, così spaventoso. Ne parla fingendo, per aderire meglio a ciò che racconta: il protagonista è un fisico; ha più o meno gli anni dello scrittore; collabora, come lui, col Corriere della Sera. Potrebbe essere Paolo Giordano, ma potrebbe essere anche una persona qualsiasi della sua generazione (nella sua posizione sociale, oppure, non necessariamente), potrebbe essere una persona di quella immediatamente precedente o di poco successiva.

Tasmania è un romanzo che parla di crisi, del tentativo di alcuni di sopravvivere alle proprie affacciandosi sull’abisso di quelle planetarie («Forse sta tutta lì la fissazione di alcuni di noi per i disastri incombenti, quell’inclinazione verso le tragedie che scambiamo per nobile, e che costituirà, credo, il centro di questa storia: nel bisogno di trovare a ogni passo troppo complicato della nostra vita qualcosa di ancora più complicato, di più urgente e minaccioso in cui diluire la sofferenza personale. E forse la nobiltà, in tutto questo, non c’entra davvero niente», p. 5); dei punti di non ritorno delle relazioni spezzettate dei nostri tempi («La parola estinzione mi è girata in testa per un po’, come l’etichetta di una sorte personale», p. 7); di amicizie che resistono al tempo e di strategie inerziali per farle funzionare («Non gli avevo mai parlato della questione figli. Era sempre stata un’amicizia, la nostra, in cui si discuteva del mondo fuori evitando il più possibile sé stessi, e forse per questo era durata così a lungo», p. 8).

Il futuro del mondo appare questione noiosa ai più («Eccolo il problema nascosto dell’emergenza climatica: la noia atroce», p. 9); quello individuale ci si illude si possa spazzare via mettendolo in pausa bellezza per un po’ («Non c’era dolore, secondo la saggezza occidentale, che una settimana di tropici non fosse in grado di risolvere», p. 15); il presente è una corsa accelerata che non riesce a comprendere neanche quando capisce («Un attimo dopo ha aggiunto: Ci tengo molto, prof», p. 31). C’è un male sovraesposto che ha reso i nostri ragazzi nuovamente protagonisti, del resto i giovani faranno il mondo che verrà, dovremmo stargli vicino, ogni volta che trovano il coraggio di alzare lo sguardo e guardare il mondo incerto che hanno intorno («E tuttavia sul conto di Christian non mi ero sbagliato. A lezione faceva interventi brillanti, era sempre partecipe, perfino appassionato. Una mattina ho letto un passaggio di Collasso e il giorno dopo una copia del libro era posata sul suo banco», p. 25), ma allo stesso tempo sono estremamente bersagliati («Nico, l’insegnante dei social media, ha commentato genericamente che gli studenti gli sembravano di anno in anno più fragili», p. 32). Un male con cui tutti noi abbiamo avuto a che fare, impossibile da evitare, stavolta, per tutti («C’era una contiguità mai sperimentata nelle nostre vite e una nuova forma di male assoluto – l’espressione è trita, ma non saprei come altro definirlo –, un male che sbocciava qua e là nel continente come un fiore marcio», p. 35).

Gli attentati in Europa («Le ho chiesto cosa facesse a Parigi e ha risposto: Una tappa del Kamikaze Tour», p. 77), per tutti, ridisegnano mappe, spingono a riflettere non solo su quello che verrà, ma su quello che è stato e com’è stato, come sia potuto succedere («Non lo so. Forse all’idea che anche le persone più intelligenti del pianeta, perché non c’è dubbio che quei fisici lo fossero, in realtà non capiscano nulla del presente. Come se dal presente si potesse solo essere… travolti», p. 40). Eppure, non tutti viviamo questo mondo alla stessa intensità, non tutti rimontiamo le istantanee del presente, poi, allo stesso modo, per le stesse ragioni, per sopravvivere, per vocazione, per distrazione, per inclinazione («Mi mandano in giro perché sono disposta ad andarci e costo poco», p. 78), anche se il fatto di essere costantemente spettatori di tutto ci illude del contrario, ma la vita non è fatta solo di storie, forse – specie in certi momenti – è fatta soprattutto da chi le racconta («Non avrà più senso per te che sei un borghese arricchito, mi scriveva Curzia, ti assicuro che ce l’ha per me che mi sono fatta un culo così per arrivarci e che comunque ho da pagare l’affitto di una casa in cui non vivo mai», p. 85): Curzia è il mattoncino di concretezza («La gente viene uccisa e noi parliamo delle orecchie da coniglio, ma ti rendi conto?», p. 86) che scuote la noia borghese del protagonista, i suoi pensieri ininterrotti, la sua incompiutezza («La questione andava affrontata anche da un punto di vista professionale: per quanto tempo ancora avrei resistito come scrittore raccontando solo di ambizioni e di esperienze mancate? Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere? Ma quello era il punto in cui mi fermavo sempre. Facevo in modo che altri pensieri inquinassero il ragionamento, distraendomi quanto più possibile dalla risposta», p. 141), le nostre riflessioni, il nostro rapporto con la scienza («I dati non mentono. Lo fanno, a volte, le persone. Ma i dati no, sono quel che sono e basta. Fornitemi delle misure accurate e io saprò dirvi la verità sul mondo», p. 97) e le persone, le stesse che sembrano così vuote, deludenti all’amico scienziato Novelli («Dalle persone. Mi sento deluso dalle persone», p. 176). Novelli è un vecchio dinosauro («Mi hanno silurato», p. 143) quando, cedendo all’ira, farnetica mescolando verità scomode e fantasie deliranti tipiche di chi sente minacciato un privilegio, ma denuncia una grave carenza di questo momento storico: la fame di persone, quella che a volte ci sorprende, quella che può manifestarsi con più o meno preavviso («Forse lo scopo del suicidio, se uno scopo esisteva, era proprio questo: diventare un pensiero fisso per chi restava», p. 213). Giordano sa raccontarla: nei quadretti stanchi della vita di coppia («Non so come fossimo arrivati a quel punto partendo da Novelli e dalle notifiche di Curzia, non so quale percorso di sfinimento mi avesse portato a tirare fuori quella frase nell’infinità di frasi possibili, ma le parole sono state esattamente: Non riesco a immaginare più nulla di noi», p. 161), lo fa come farebbe un fisico («In rue de la Gaîté l’ho ascoltato parlare, sorseggiando la birra. Mi sono lasciato ripulire lo spirito dalla sua competenza infallibile, dal rumore delle auto e dal moto browniano della gente, p. 8»; «Lo capisci, no? Le nuvole alte si formano solo grazie alla concentrazione di altre porcherie, soprattutto metano. Insomma, l’aumento delle nubi nottilucenti, per quanto magnifico, è una misura diretta del riscaldamento globale», p. 217), lo fa come può farlo e sa farlo uno scrittore. Lo scrittore non sempre risponde agli altri («Cioè, tu credi sul serio che di fronte alla possibilità di estinguerci ci comporteremmo in modo tanto diverso?», p. 246), ma racconta a partire da una ferita propria e collettiva («Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere», p. 258), non necessariamente indica una strada, ma fornisce un tentativo di fuga («Se proprio dovessi, sceglierei la Tasmania. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un’isola, quindi facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda», p. 100), descrivendo le incapacità dei suoi protagonisti e quello che è riuscito a filtrare dal mondo. Illumina le zone d’ombra che ci tormentano: quelle che la sera vengono alimentate dal serpentone sul fondo dello schermo o nei sommari senza pietà di quello che succede fuori, ma anche quelle che strisciano, silenziose, all’interno delle nostre case e delle nostre più o meno grandi, più o meno piccole esistenze («E stavo pensando che tutte quelle cose, insieme alla pizza fuori programma che stavamo mangiando per colazione il primo gennaio 2020, tutte quelle cose messe insieme – non ero sicuro, lo consideravo adesso per la prima volta – forse erano state una paternità», p. 237).

Paolo Giordano, Tasmania, Einaudi, 2022, pp. 272

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