«Il pubblico ha disertato il teatro nella sola Italia; perché? A Parigi i teatri sono strapieni… Da trent’anni io dico sempre la stessa cosa, e cioè che lo Stato ha dei doveri verso il teatro». Bentornati nel 1948, al Convegno Nazionale del Teatro tenutosi a Milano. A parlare era Silvio D’amico, che ricordava alcuni pregi dell’interventismo fascista («Che cosa si è fatto di buono durante il regime? Si è affermato e attuato un grande principio: l’intervento dello Stato nelle sorti del teatro»), stigmatizzandone però la strumentalizzazione politica e l’ingerenza ideologica. A 66 anni di distanza, la frizzantina comunità teatrale si riunisce di nuovo a Milano per discutere di “Strategie del rinnovamento”, in occasione dei primi 10 anni di “Buone Pratiche”, un network di operatori dello spettacolo, che censisce la scena contemporanea, raccoglie dati e progetti innovativi ed è nato da un’idea di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino: anche oggi come allora si chiede «un’attivazione politica trasversale a livello nazionale. Lo si è ribadito fin dagli inizi, con la mobilitazione per l’1% del Pil alla Cultura nel 2005».

Il confronto tra la stagione post-bellica e l’attuale dibattito è inevitabile: basta spulciare le due rispettive pubblicazioni (“La nascita del teatro contemporaneo in Italia”, Passigli e “Le Buone Pratiche del Teatro”, Franco Angeli) per rendersi conto che lo stallo economico e culturale è lo stesso, e il fermento pure; solo che là si cercava di istituire gli Stabili (dopo la felice esperienza del Piccolo Teatro) e qui, invece, si tenta di riformarli, prima che vengano falcidiati dal decreto “Valore Cultura” dell’ex ministro Massimo Bray, già convertito in legge ma le cui norme applicative sono ancora in via di definizione e non si sa cosa intenda farne il neoministro Dario Franceschini. Intanto, da Venezia a Messina, da Pisa a Napoli, i teatri continuano a essere occupati a intermittenza: l’apripista fu il Valle di Roma nel 2011, a cui da poco è stata negata la legittimità di “Fondazione-Bene comune” ed è neovincitore del “Princess Margriet Award” dell’European Cultural Foundation. Ma è la rondine tapina che non fa primavera, come testimoniano gli odierni “Stati Generali del Teatro”, che mappano un territorio alla deriva, frammentato e frantumato, oltre che geologicamente vetusto, visto che ancora si discetta, seppur sdrammatizzandola, di “Questione meridionale”. La radiografia di Giulio Stumpo ed Elena Alessandrini è impietosa ma preziosa. Dal 2001 al 2011 la soglia della povertà lavorativa ha fagocitato quasi la metà delle categorie dei “creativi”, dagli attori agli orchestrali, dai danzatori ai cantanti. Nel ’48 Giorgio Strehler lamentava che «un solo regista italiano campa esclusivamente del suo mestiere» (lui) e anche ora i registi non sono certo tra i meglio retribuiti, surclassati da impiegati, direttori di scena e di doppiaggio e amministratori, le tre professioni più remunerate del settore. L’occupazione e la produzione sono però rimaste stabili, con valori paradossalmente alti: 300 mila occupati per circa 100 mila spettacoli all’anno. Ciò significa che la crisi «è stata pagata non tanto dal pubblico quanto dai lavoratori, i quali hanno sperimentato una progressiva riduzione dei compensi, sintomo di un crescente ricorso al volontariato, ovvero di un aumento del “lavoro sommerso”».

Altro dato allarmante, ma annoso, come ricordava D’Amico, è la scarsa affluenza di spettatori: da noi va a teatro, anche solo una volta all’anno, il 22% dei residenti. Il vero spread tra Italia e altri Paesi è sì la spesa in cultura, ma non solo (e non tanto, verrebbe da dire) da parte dello Stato quanto dei cittadini fruitori. Da un lato c’è la «progressiva riduzione del finanziamento pubblico (-3,9% in media annua, per una riduzione totale del 35,6%)», che mantiene il Bel Paese molto al di sotto della media europea, dall’altro persiste la stagnazione dei consumi culturali. Per «spesa delle famiglie in ricreazione nell’Ue» siamo agli ultimi posti, seguiti da Irlanda, Estonia, Lituania, Grecia, Bulgaria e Romania. I primi sono i Finlandesi, il cui Stato però spende in Cultura solo lo 0,54% del Pil, contro l’1,8% dell’Estonia e il nostro 0,44%, che è comunque più alto dello 0,38% della Germania e dello 0,45% della Svizzera (media: 0,58%). Le sovvenzioni statali non sono sempre direttamente proporzionali allo stato di salute della cultura, tantomeno alla partecipazione dei cittadini alla vita culturale. Eppure in Italia si continua a invocare l’intervento pubblico: nel ’48 alla Casa della Cultura (socialista) non c’erano politici, ma la politica pesava, oggi invece sono invitati assessori e portavoce, dirigenti e ministri, ma pare che non contino nulla, o siano precari come tanti. Una volta, per evitare l’accusa di partigianeria, si ospitava un andreottiano doc (Nicola De Pirro) e Paolo Grassi si teneva lontano dal convegno, nonostante ne fosse l’ideatore, perché “troppo socialista”. Allora Grassi si era fatto spettro per «opportunità politica», oggi invece è il fantasma che tutti vorrebbero acchiappare. E infatti ci si ritrova sempre alla scuola a lui intitolata.

Sito di “ateatro”, dove saranno pubblicati i video della conferenza: http://www.ateatro.it/webzine/

Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, Le Buone Pratiche del Teatro. Una banca delle idee per il teatro italiano, Franco Angeli, pagg. 260, € 28,50

La nascita del teatro contemporaneo in Italia. Convegno Nazionale del Teatro. Milano, giugno 1948, Passigli, pagg. 305, € 12,00