«Un fatto non può tornare come torna un conto», scriveva Dürrenmatt e questo Francesca Serafini lo sa e, forse, lo sa anche Lisa Mancini, la commissaria protagonista del suo primo romanzo, Tre madri. Il romanzo ha in esergo un’altra citazione che fa il paio con quella di Dürrenmatt: «Lascia dormire il futuro come merita», Franz Kafka.

E il futuro dormirà: il lettore resterà anche spiazzato, provando un po’ di piacere, però, come succede – ad alcuni – quando lo gnommero non si dipana, nonostante la mente della protagonista sia una di quelle menti analitiche e macchinose che il futuro lo governano, plasmano, disegnano («si dice che deve smetterla con questo impulso rudimentale e nevrotico all’analogia, in definitiva, un sottoinsieme anche questo delle sue manie di controllo», p. 90), o forse è proprio per questo che – almeno per ora – questa storia ci lascerà sospesi, un po’ come capita nella vita («La verità è che non decidiamo proprio un cazzo. Ma intanto che non decidiamo niente. Intanto che la vita ci taglia a fette un giorno dopo l’altro: siamo qui, nonostante tutto, che ne reclamiamo ancora. Ancora un altro po’», p. 297).

«Il libro è una cosa, ma se lo apri e leggi diventa un mondo»

Aveva ragione Sciascia, anche se certi libri sono più mondo di altri e questo sicuramente lo è. Perché Tre madri è la storia corale di un mondo ben costruito curata in ogni dettaglio, in ogni sfumatura, ogni suono e particolare: de minimis curat philologus, verrebbe da dire, dato che Francesca Serafini è di formazione una storica della lingua e si sente.

Si sente nell’attenzione e nel suo amore per le parole che passa alla protagonista che da bambina diceva caramogio, come Landolfi («Bernardo le aveva regalato il dizionario enciclopedico Treccani e lei, ogni volta che scopriva una parola nuova, si metteva subito a studiarla e poi trovava sempre un modo per farla saltare fuori durante una conversazione», p. 176); e si sente che è prima d’ogni cosa un’amante della forma («Finché c’è materia, lavorando sulla forma, c’è occasione di creare emozioni: che è tutto ciò che li interessa e che li fa sentire vivi. È questo che fanno gli artisti, no?», p. 21) che nella vita ha scelto di costruire storie, non solo di carta («ci vorrebbe il sonoro, qui, per palpitare in presa diretta a ogni dettaglio di questo tramestio angosciato di uomini e bestie nella boscaglia alla ricerca di una qualche traccia del ragazzo», p. 79) e che ci riesce, governandole con maestria mentre le lascia libere di fluire («– Sa che lei è un personaggio?», p. 95).

Lingua madre

Lisa Mancini è romana: quando ama («La c che da Roma scivola fino a lei nella pronuncia di sccerto la fa sentire a casa, smuovendole un sorriso più prolungato di quello che avrebbe richiesto la circostanza», p. 110); quando si difende («A una di quelle espressioni spietate ma efficacissime con cui il romanesco si accanisce, quando lo trova, su un difetto fisico – la fattispecie adatta qui è: questa se fa prima a sartalla che a giraje intorno – per reazione a una qualche offesa, e che ora al pensiero almeno la fa ridere», p. 45); quando assorbe per osmosi l’anima della sua città («Senza saperlo, la bambina era parte di un processo che da lì in poi avrebbe portato a svuotare di persone e storie il centro vivo delle città per trasformarlo in un affare redditizio che avrebbe eliminato nel tempo ogni possibilità di contaminazione sociale, sparpagliando quello stesso popolo nelle ramificazioni periferiche e scriteriate di tutte le città che a un certo punto si erano adeguate a definire un prezzo ‒ sostenibile da pochi ‒ per servizi e bellezza», p. 72). Ma è anche una donna che, poco più che trentenne, ha già alle spalle una carriera brillante in Italia e all’estero, e si porta dentro una vita («Del perché una commissaria dirigente già a ventisette anni in un quartiere della periferia romana più controversa, passata successivamente prima alla Mobile e poi alla sede dell’Interpol di Lione, sia finita sei anni dopo a dirigere gli uffici di un piccolo centro romagnolo avremo modo di parlare», p. 14) e un mistero doloroso («L’ultimo messaggio ricevuto risale al 16 luglio: “Je t’ai aimé”. Lo stesso identico giorno in cui ha aperto quella chat l’ultima volta», p. 37).

Tre madri

Tre madri è la storia di Lisa, ma anche quella di River e non è di certo solo questo (ed è un giallo, ma i gialli non si raccontano). È una storia di madri, di figli, di genitori, di storie che s’intrecciano, si perdono, si toccano («Che meraviglia, Aimee. La sua forza. Che meraviglia, la musica. Soltanto a evocarla, raggiunge Lisa come una carezza. Pensa a quella che amava River. Pensa a De André. Anche lui aveva cantato Tre madri», p. 296).

È una storia che cita sin dall’inizio («Di là dal fiume e tra gli alberi, p. 11), attraversa le storie che abbiamo dentro e attraverso Lisa ci ricorda, indica, insegna qualcosa, come fanno – da sempre – le storie buone («Dove si insegna ai genitori a evitare il peggio? E come fanno i figli – anche quando capita tutto questo – a imparare a perdonarli? In quale negozio si comprano queste indulgenze qua? p. 238): madri dei nostri pensieri e delle nostre parole, figlie delle nostre speranze e delle nostre paure («Chissà quale strana forma di stregoneria in genere ci fa apparire come porto sicuro la palude in cui finisce intrappolata ogni nostra istintività, pensa», p. 57). Le storie che non giudicano mai, ma raccontano con curiosità e rispetto («Una riservatezza da parte loro che non ha a che fare solo con la vocazione professionale né col carattere – peraltro diversi: tanto espansivo lui, quanto ritrosa lei – ma piuttosto con quella capacità che hanno i superstiti di riconoscersi tra loro; e di sapere anche quando il dolore a cui sono sopravvissuti è ancora troppo vicino perché se ne possa parlare», p. 32).

Francesca Serafini, Tre madri, La nave di Teseo, Oceani, 2021, pp. 297

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