Che il cancro al polmone sia nel destino di ogni fumatore lo aveva intuito anche Cesare Pavese, in una delle ultime lettere della sua vita, indirizzata a una misteriosa ragazza di nome «Pierina» (rivelatasi poi Romilda Bollati, sorella di Giulio). All’epoca, nel 1950, la correlazione fra tabacco e tumore non era ancora universalmente riconosciuta come «una delle più forti nella storia dell’epidemiologia», secondo quanto scrive l’oncologo – e premio «Pulitzer» – Siddhartha Mukherjee. A maggior ragione, il sinistro presagio di Pavese si attaglia ai giornalisti, nati con la sigaretta in mano e cresciuti in redazioni più malsane d’una fumeria d’oppio. Basti citare i nomi di Mario Pannunzio, Vittorio Gorresio, Oriana Fallaci, Giuliano Zincone, tutti morti per collaudato tabagismo.

Invece Mimmo Cándito, storico inviato di guerra per la «Stampa» di Torino, non ha mai fumato. Come ricorda sul «Sole 24 Ore» l’amico e collega Ugo Tramballi, le sue cene dopo una giornata di lavoro a Beirut o a Bagdad erano molto parche: niente carne, ma solo cofane d’insalata, macedonie di frutta e spremute d’arancio. Inoltre, «non faceva tardi la sera perché si svegliava all’alba per andare a correre». Con uno stile di vita così ascetico, tutto Cándito si sarebbe aspettato fuorché di vedersi diagnosticare un carcinoma di 8 centimetri al polmone, un giorno d’estate del 2005, in un ospedale di Miami. Tanto che, durante la visita di routine che aveva smascherato l’‘ospite’ inatteso, lo stesso dottore gli chiederà: «Lei fuma, vero?».

Cándito non era preparato alla propria morte. E poi, per deformazione professionale, lui della morte aveva un concetto molto ‘sporco’: il tanfo nauseabondo dei cadaveri dilaniati dalle bombe, le pozzanghere rosse di sangue, le rovine, le macerie, le urla raccapriccianti dei feriti. Invece, in quell’ospedale, tutto era asettico e rarefatto: i lunghi corridoi silenziosi, le camere linde, i camici verdi degli infermieri, i fascicoli azzurri con le cartelle cliniche. Persino il medico aveva mantenuto un distaccato riserbo: «Lei ha realmente un tumore. Lei, devo comunicarle, non ha speranza di sopravvivere».

Sono passati più di dieci anni da quel giorno, e ora Cándito può rievocare la sua lunga battaglia contro la malattia. Una battaglia che ha registrato un insperato successo. In fondo, scrive il nostro autore, guerra e cancro sono quasi la stessa cosa: «devi averne paura, ma anche devi saperci lottare per salvare la pelle». Tanto più che lui il tumore l’ha contratto proprio nel corso di una guerra, molto probabilmente durante il primo conflitto del Golfo (1991). La biopsia polmonare ha infatti rivelato tracce di metalli polverizzati dall’esplosione dei proiettili: titanio, uranio, tungsteno, ossido di zirconio. Nulla a che vedere con il catrame delle sigarette, e neppure con l’aria pestilenziale di Milano o New York. Del resto, Cándito è stato un vero «inviato speciale». A differenza dei tanti fabbricatori di «audaci menzogne» sbeffeggiati da Evelyn Waugh, lui la guerra non l’ha mai seguita dalle retrovie: «le cose, uno le racconta soltanto se le vede».

Intrecciando le proprie vicissitudini sotto il segno del cancro con le memorie di trent’anni trascorsi sui fronti più caldi del pianeta, Cándito ha partorito il suo libro più intimo e profondo. Forse ha ragione chi sostiene che uno scrittore dia il meglio di sé quando affronta in prima persona lo scandalo della propria malattia, la verità estrema dell’esistenza. Pensiamo a Thomas Bernhard, che nel Nipote di Wittgenstein racconta del «tumore della grandezza di un pugno» estratto dalla sua gabbia toracica. Ma pensiamo anche ai cancer blog dei tanti malati sconosciuti, spesso autentiche gemme di scrittura (uno dei più straordinari è questo, da cui è stato tratto un libro: https://widepeak.wordpress.com/).

Sin dall’inizio, Cándito si rifiuta di gestire passivamente la propria morte annunciata. Non s’identifica nella rassegnazione dei _dead men walkin_g confinati nei reparti oncologici, vecchi incartapecoriti e giovani scarnificati, che si destano dal loro torpore sapendo di non avere alcuna speranza. Lui è fatto di ben altra pasta. Le «55 vasche» richiamate nel titolo sono quelle percorse in un solo giorno di piscina, nonostante la spossatezza. Quando esce dall’acqua, sa già che l’avrebbe sconfitta, la brutta bestia, grazie a un’ansia di vita e una forza di volontà in grado d’incidere sulla fisiologia del corpo.

Non mancheranno, comunque, i momenti drammatici, quasi fatali: due delicatissime operazioni al polmone a distanza ravvicinata, una lobectomia, il corpo dolorante e intubato ridotto a un «ammasso flaccido di tessuti necrotizzati». Senza dimenticare l’inferno della chemioterapia, che ha una sola funzione: spingere il tuo organismo sin sulla soglia della morte, per cercare di uccidere il cancro prima che lui uccida te. Ma è grazie alla «chemio» se Cándito riesce a ridurre le dimensioni del tumore, inizialmente giudicato inoperabile, per poi affidarlo al bisturi dei chirurghi.

Questo libro, purtroppo, non ha un lieto fine. A dieci anni dalla prima diagnosi, quando mancava poco per raggiungere la certezza statistica della guarigione, la Pet registra una nuova insorgenza neoplastica, nell’altro polmone, il solo che gli è rimasto. Un piccolo tumore, una massa di due centimetri di scalpitanti cellule impazzite, presto annientate dalla radioterapia. Ma la partita non è ancora chiusa: «il tumore, infatti, una volta che l’hai avuto, ce l’avrai per sempre dentro di te, sino alla morte».

Mimmo Cándito, 55 vasche. Le guerre, il cancro e quella forza dentro, Rizzoli, Milano 2016, pagg. 230, € 17,50.