Potrà di primo acchito apparire curioso o quanto meno bizzarro che Tommaso Landolfi, fra i più splendidi slavisti di tutto il Novecento, non abbia mai messo piede in Russia né abbia mai in nessun modo manifestato alcuna volontà di recarvisi. Tutto ciò, tenendo in considerazione lo spirito col quale Landolfi affrontò i suoi studi, pionieristico e al contempo avventuroso, come provocato, non dovrebbe sorprenderci, da una scommessa o da un audace coup de dés (a Firenze, dove si laureò con una tesi su Anna Achmatova nei fascistissimi anni Trenta, non c'era nemmeno una cattedra di slavistica). Non sarà stupito, invece, chi ne comprenderà la volontà di stornare da sé il fascino fasullo dell'esotico per ritrovare, al pari del Goethe del Viaggio in Italia, quel paesaggio già prefigurato come sogno (o incubo) nella sua immaginazione, un paesaggio plasmato dalla lingua e dalla letteratura. “La più grande tragedia della mia vita è stata la morte della Karenina”, scrive da qualche parte Dovlatov, a rimarcare così la vera patria di ogni scrittore, il suo vero paese natale.

I russi, a cura di Giovanni Maccari (Adelphi) raccoglie tutti i saggi di slavistica composti da Landolfi (fatta eccezione per la tesi sulla Achmatova) tentandone una disposizione ragionata, organica e compiuta, in una sorta di manuale che, partendo da una visione a volo d'uccello del pensiero russo, finisca per sfociare poi in una trattazione, per autori, della letteratura del XIX e XX secolo; tuttavia, la natura occasionale degli scritti qui raccolti (prefazioni, recensioni ecc.) e, soprattutto, lo spirito asistematico e sfuggente di Landolfi fanno deflagrare la volontà ordinatrice che a questo quadro limpido ed equilibrato soggiace, rivelando la reale materia costitutiva di queste pagine, non molto lontana dagli abissi che si aprono nella prosa dei suoi deliri più terribili, siano essi Il mar delle blatte o Ombre.

D'altro canto, sarebbe quantomeno assurdo interpretare l'opera di Landolfi come un'attività frantumata negli svariati rivoli delle cosiddette forme espressive, disiecta membra poetae: al contrario, l'unità della sua figura si manifesta in egual misura nella prosa narrativa come in quella saggistica, nella poesia come nelle traduzioni – si immagini, a supportare le splendide pagine dedicate in questo volume a Gogol' (sotto molti aspetti assonanti rispetto a quelle che a lui riservò Nabokov), uno dei suoi racconti più belli e definitivi, La moglie di Gogol', o le versioni perfette dei Racconti di Pietroburgo o di quel frammento giovanile, Roma; così come, alle pagine interessanti ma a dire il vero un po' più marginali su Dostoevskij, dovrebbero essere affiancati i monologhi terribili e straordinari che fanno elevare racconti come Ottavio di Saint Vincent e Maria Giuseppa ai toni dissonanti e perfetti che la voce de Le memorie del sottosuolo spreme dai meandri più oscuri della vita.

Fondamentali, fra i testi raccolti in questo volume, sono in particolare quelli dedicati a Puškin, fra le cui pagine Landolfi tenta di evocare il mistero della sua immensa poesia, la grandezza di quella “thing of beauty, not a psychological study” (Mirskij) che emerge dall'enigmatica piattezza, da quella bizzarra mancanza di vigore e fantasia che spinse Flaubert a dire Il est plat, votre poète al povero Turgenev; o quello posto in limine al volume, “L'introduzione a Narratori Russi”, nel quale le caratteristiche più salienti della cultura russa (quegli impulsi smodati ed eccessivi che ne informano ogni aspetto, spirituale o materiale che sia; il prevalere dei mostri dell'immaginazione sugli alfieri della ragione; la riflessione sul male e quella sugli “umiliati e offesi”) si delineano in pagine che sembrano incarnarne l'immagine, in una sorta di sconvolgente prosa di Atteone, un movimento che, al cospetto della nudità accecante di Diana, non può che mutare il cacciatore in preda e giungere alla fusione perfetta fra una scrittura che si muove in cerca della propria vera patria e quest'ultima, di cui le “pinate pagine” in cirillico sono il complesso, seducente paesaggio. E, forse, anche il lampo che squarcia e manda all'aria, definitivamente, la già ciondolante vita ordinaria, come accade al profeta di quella poesia di Puškin che Landolfi traduce magistralmente: “Roso di sete spiritale/Mi trascinavo pel deserto/E un Serafino con sei ale/A un crocevia mi fu aperto/[...] E colla spada il petto aperse/Fuori ne trasse il cuor fremente/Ed al suo luogo un tizzo ardente/Nello squarciato petto inferse”.