Scindere il potentissimo binomio Cuba-Musica è impossibile.
Nell’isola caraibica slabbrata e decadente, ma bella e incontaminata, lo spirito più autentico del popolo è ancorato al ritmo della salsa, della rumba e del bolero. È però il Buena Vista Social Club l’anima del socialismo tropicale, lontano dai freddi e rigidi dettami politici dell’Europa dell’Est. Musica, quella cubana, che ha influenzato e affascinato tutti e tutto; compreso il rock che negli anni Sessanta proprio a Cuba è stato messo ingiustamente al bando dal Líder Maximo. Il rock – annoverato fra i più satanici simboli di capitalismo, poiché rischiava di “corrompere la gioventù” –  è  croce e delizia per Fidel Castro che, dopo averne impedito per quarant’anni ogni diffusione, nel 2000, rinnegando qualche lontano credo, ha voluto dapprima rivalutare e celebrare il carisma di John Lennon – facendo innalzare una statua bronzea in suo onore – per poi offrire il suolo cubano a una serie di eventi musicali considerati “di rottura” con il suo stesso regime. Sono lontani i tempi in cui il Partido comunista defenestrava dai palinsesti radiofonici i conduttori e i programmi che osavano trasmettere i brani dissacranti dei Beatles, ché potevano nuocere al regime quasi più dei libri impossibili da introdurre nell’isola.
La musica a Cuba ha intrapreso la via del vero cambiamento da quando nel 2006: dopo 47 anni di totale controllo, Fidel Castro ha trasferito i poteri al fratello Raúl, artefice non soltanto delle piccole-grandi aperture sul fronte dei diritti umani e civili ma dell’appuntamento storico che ha sancito il disgelo fra Cuba e Stati Uniti, avviato 15 mesi fa con la ripresa dei rapporti diplomatici.
Se dopo 88 anni un presidente statunitense mette piede a L’Avana, è davvero lecito pensare che a Cuba la voglia di voltare pagina e uscire dall’isolamento internazionale non sia più un'utopica possibilità ma un’irrefrenabile esigenza collettiva.
A dimostrarlo sono le pennellate di entusiasmo popolare dai tratti folcloristici, semplici e un po’ ingenue, che hanno carezzato anche il primo concerto dei Rolling Stones nell’isola di Fidel, considerato il più grande spettacolo dopo la rivoluzione castrista del 1959.
L'inno americano che risuona nel Palazzo della Rivoluzione, i manifesti con l’effigie di Barack Obama sui muri dell’Avana, le bandiere statunitensi che sventolano dalle finestre, e le magliette a stelle e strisce indossate dai ragazzini non sono più una pericolosa propaganda yankee. 
Così come non lo sono le note di Satisfaction che invadono le strade dell'Avana e la cubitale linguaccia degli Stones che per un giorno, senza blasfemia alcuna, oscura la sacra icona dell’isola: Ernesto Che Guevara.
Assistere a un’esibizione della band inglese non vuol dire soltanto bearsi e contemplare una pagina fondamentale della storia del rock, che si rinvigorisce ciclicamente davanti a un’imperiale scenografia e sotto strabilianti effetti speciali; i loro concerti vanno ben oltre, e arrivano a solennizzare la ribellione come massima espressione della libertà individuale.

Assaporando la gustosa ebbrezza di quella libertà per troppo tempo inespressa – che li costringeva ad ascoltare musica diversa da quella di Stato soltanto se scaricata clandestinamente da Internet o importata “dall’estero" attraverso semplici chiavette usb – i cubani toccano con mano e vivono la performance gratuita dei Rolling Stones senza censura, senza limiti, senza filtro e senza bavaglio. «Non più embargo», urlano durante la serata i giovanotti di Cuba davanti all’imponente palco che domina la Ciudad Deportiva, spronati dalla musica coinvolgente e deflagrante, abbagliati dagli schermi giganti ad altissima risoluzione che sovrastano la folla, senza più paura di essere rinchiusi nella prigione castrista. Sembrava impensabile, e in fondo lo è: all’Avana non si era mai visto niente di simile; la severa tribuna antimperialista e gli affannati impianti sonori appartengono a un passato che sta per essere definitivamente smaltito.

La speranza c’è, e tra i fumi roventi del sogno divenuto realtà la “gioventù cubana”, così come ama ripetere Fidel, spera che la linguaccia irriverente e scostumata – simbolo incontrastato dell’animo anti-autoritario della band che ha scardinato regole e convenzioni a suon di “maledetto” e graffiante rock ’n’roll – possa abbattere i muri delle galere affollate da dissidenti, far cessare ogni forma di interdizione e proibizione, stracciare l’ultimo brandello della Guerra fredda rimasto in piedi, e aprire le porte a un socialismo più vicino alle più ovvie esigenze del popolo.

«Hasta siempre, comandante Jagger», ripetono a gran voce i ragazzi tra la folla dell’arena sportiva – un tempo adibita anche a luogo di detenzione dei mercenari catturati dal regime – prima che i riflettori si spengano e i Rolling Stones spariscano nel buio della vibrante notte cubana.

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