Intervista ad Alice Pasquini
Ogni donna dipinta da Alice Pasquini è un atlante di emozioni. Le protagoniste delle sue opere, infatti, come le rivoluzionarie, belle e dolenti signore dei maestri del Rinascimento sono un palcoscenico delle loro private intimità, rese pubbliche – oggi – dal potere della street art . Nata a Roma nel 1980, Alice ha iniziato a muovere i primi passi nell’arte negli anni Novanta, senza farsi tentare dalla video art , dall’happening, dalla body art e da tutte le altre espressioni artistiche che dominavano fieramente la scena in quel periodo. Imperterrita e determinata, in direzione ostinata e contraria, è rimasta una fedele ambasciatrice della pittura . Una scelta dettata dal desiderio di esprimere al meglio l’universo che le viveva dentro. Il risultato è da sempre un’arte che – come una motivazione forte – s’innalza sulle realtà metropolitane per ridar vita e lustro ai luoghi cosiddetti “dimenticati dalla società”. Quelli di Alice Pasquini sono nella più assoluta squisitezza interventi contestuali:
«Ho sempre preferito dipingere qualcosa che sia specifico per il luogo di cui farà parte. L’ispirazione sorge dal posto, dalla forma del muro, dal contesto e dalla cultura. Un muro non è una tela, è tutt’altra cosa».
Cosa rappresenta per te il muro?
Rispetto a una tela, il muro porta con sé una storia. Scelgo sempre muri già devastati, anche da stratificazioni di tag. La mia necessità è quella di ridare valore alle cose abbandonate. Una volta andata via, le mie tracce continuano a evolvere con la città. E spesso resistono al tempo e invecchiano assieme al muro, diventando parte integrante di quel luogo e di quella storia.
La passione per l’arte si è accesa in te, come un sacro fuoco, determinando tutte le tue scelte
Proprio così. Avere una passione che può essere una fortuna, ma anche una condanna, perché è come se non ci fosse un’altra alternativa. L’arte per me è sempre stata un modo di stare al mondo: quando sono triste disegno, quando sono felice disegno. Non saprei vivere la vita, senza questo filtro. Sapevo fin da piccola che avrei fatto l’artista, lo rivelai a mia madre già a tre anni. Nella mia testa da bambina, quello della pittrice era un mestiere come gli altri. Ho frequentato prima il Liceo artistico, e poi l’Accademia delle Belle Arti; e in entrambe le esperienze formative c’era sempre qualche professore pronto a ricordarmi che “la pittura era morta”.
E questo non può non essere stato che stimolo, vero?
Be’ sì, perché mi ha portato a incuriosirmi verso altre forme d’arte più contemporanee. Sono così entrata a contatto con la cultura hip pop che – in netto contrasto con lo spirito accademico – ha mosso un’intera generazione di giovani verso l’unicità delle scelte. Nessuno poteva insegnare a ballare la break dance o a usare la bomboletta spray. Avveniva tutto in maniera spontanea, grazie alle nostre ricerche e conoscenze. Non avevamo ancora Internet, e le riviste in circolazione erano davvero poche; eravamo però animati dall’esigenza di trovare prima di tutto un contatto con la città. Cominciare dipingere sui muri voleva dire fare un’arte che fosse più vera, non distaccata dalla realtà e dalla vita che volevamo condurre.
Adottando il criterio di unicità della cultura hip pop, sei riuscita a firmare opere in molte città del mondo. Senza troppi vorticosi giri di parole, sei un’artista internazionale
Se a quindici anni mi avessero detto che un giorno avrei viaggiato in tutto il mondo, dipingendo più di mille muri, probabilmente non ci avrei creduto. Per un artista, la cosa più importante è trovare il proprio segno e la propria voce. Sono state le persone – specie i cittadini delle città nelle quali mi fermavo a dipingere – a farmi capire che quello che stavo facendo non era importante soltanto per me, ma anche per gli altri.
Negli anni Duemila la comunicazione si è integrata maggiormente. L’arte urbana ne ha tratto un formidabile vantaggio
Sì. Più che di graffiti a quel punto si è iniziato a parlare di street art ; non più di imbratti brutti e cattivi, ma di un fenomeno interessante. Ciò ha favorito lo sviluppo di un mercato parallelo a quello istituzionale dell’arte. Una cosa estremamente innovativa, perché la street art ha aperto le porte a un circuito nuovo fatto di gallerie, aste e festival internazionali.
Dettaglio non trascurabile: sei stata una delle primissime donne a far parte di questa avanguardia. Un esempio per tante altre colleghe-artiste venute dopo
È vero. Ero così orgogliosa di quello che stavo facendo da aver deciso di firmare gli interventi con il mio vero nome, nonostante non sia una pratica molto usuale nel mondo dei graffiti.
Inusuale come la tua introduzione nel perimetro della street art di alcuni elementi mai visti prima
Mancava nella galassia della street art una narrativa dal punto di vista femminile. Nella pratica dei graffiti la donna veniva rappresentata in tutt’altra maniera, proprio perché erano davvero poche le artiste all’opera. Quel mio modo di raccontare le storie intime in uno spazio pubblico – divenuta poi la caratteristica della mia poetica – all’inizio non è stato compreso dai miei colleghi maschi. Ero alla ricerca di uno stile diverso e, influenzata dal mio background accademico, ho così iniziato a stendere il colore in maniera diversa rispetto a quello che si vedeva in giro, creando così opere spiazzanti in luoghi in cui non erano ancora esistite. È stato un mio personale dialogo con la città, una pratica artistica che mi ha fatto sentire viva.
Dalla tua voglia di imbastire sempre un dialogo fra l’arte e il territorio, è nato anche un festival d’arte urbana a Civitacampomarano, divenuto un volano di sviluppo economico per quella comunità
Quando la mia passione è diventata il mio lavoro, ho capito che era arrivato il momento di restituire quello che mi era stato dato. Ho iniziato così a fare sempre più lavori legati al sociale, nelle case di accoglienza o nelle carceri. Uno dei luoghi a cui sono più legata è proprio Civitacampomarano, in Molise. Un giorno, mentre mi trovato a New York, ho ricevuto l’invito di una ragazza dalla Pro Loco del paese per andare dipingere lì. Tornando dagli Stati Uniti, mi ci sono catapultata immediatamente perché lì era nato e cresciuto mio nonno. Quando sono arrivata, mi sono accorta che era decisamente diverso dal luogo vivo e popolato che ricordavo. Ho scelto così di dipingere le scene di vita di un tempo sulle vecchie porte e sui muri delle case abbandonate. Dopo i miei interventi a Civitacampomarano, con l’inevitabile interesse mediatico, sono arrivati sempre più turisti a riscoprire la bellezza di quel posto meraviglioso. La potenza dell’arte aveva rimesso al centro dell’attenzione un borgo dimenticato. Ci venne così l’idea di organizzare un festival in cui gli artisti partecipanti potessero con la loro poetica aggiungere qualcosa di nuovo. Divenuta ormai una festa per tutta la comunità di Civitacampomarano, la rassegna è stata la molla che ha risollevato l’economia locale. E spero che questa operazione possa essere di ispirazione per le tantissime realtà cittadine che vivono ancora in una situazione di stallo. È bello vedere come l’arte contemporanea possa contribuire a una causa così nobile.
Sempre più spesso, ormai, sono gli artisti di ogni ordine e grado a veicolare attraverso i loro interventi pubblici dei messaggi ad altissimo contenuto politico
La street art è un’arte sociale per definizione. Da quando realizzo opere sempre più grandi – concepite per parlare a lungo alla comunità che ci vive davanti – sento un’enorme responsabilità. Il mio è un modo di far politica diverso da quello di chi sale in cattedra per spiegare come far andare la società. Probabilmente rischio di risultare banale, ma preferisco operare per rappresentare soltanto quello che spesso nelle nostre città manca, ovvero il calore del rapporto umano. Ricevo con frequenza e-mail e massaggi da donne che si sono identificate nei soggetti da me dipinti. Non certo per la caratteristica fisica, ovviamente, ma per il sentimento che le opere trasmettono. Abbiamo tutti bisogno di messaggi differenti, non finti o fasulli, ma autentici e profondi.
Alice, continuano a dirti che la pittura è finita?
No, per fortuna. La street art ha riportato in auge la pittura. Il merito è principalmente dei cittadini. E questo è segnale interessante, democratico e carico di belle speranze per il futuro.