Due settimane fa, sulle pagine del Faro ci siamo interrogati sulla difficoltà di tracciare con precisione il sentimento che lega insieme una o più generazioni. Abbiamo provato a rispondere dicendo che molte venivano accomunate da un’idea, che l’identità di ciascuno è il transito, la continua possibilità di mutare, di non essere etichettati. Altra idea che unisce i ragazzi che oggi hanno un’età compresa tra i venti e i trentacinque anni è la consapevolezza di dover cambiare le cose. Di ribattere in modo netto e chiaro al proprio tempo. E per cominciare a definire queste risposte, abbiamo pensato di coinvolgere Jonathan Bazzi, che con il suo primo libro, Febbre (Fandango), e i suoi articoli sta rovesciando i paradigmi culturali su cui comodamente si adagiano le coscienze di tanti. L’intervista coinvolge un ragazzo di ventitré anni, l’intervistatore, e uno di trentacinque, l’intervistato, quindi ai poli di quel sentimento generazionale che si proverà a descrivere.

Jonathan, vorrei cominciare chiedendoti della distanza, che sembra essere sempre più marcata, tra noi e i nostri padri, tra noi, ragazzi dai venti ai trentacinque anni, e i cosiddetti «boomer».

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una profondissima trasformazione culturale, forse persino antropologica: internet e i social hanno davvero creato una nuova forma di umanità. Che generalmente viene stigmatizzata, appiattita, considerata ignorante, preda della dispersione, della disattenzione. Ecco, guardare così questa trasformazione significa negarle qualsiasi aspetto positivo, che invece c’è: la maggiore disponibilità al nuovo, innanzitutto, poi la leggerezza, la capacità di mettere insieme esperienze molto diverse e di coniugarle in un unico gesto. Più sono giovani le persone che ci capita di incontrare più queste qualità si mostrano evidenti. Ecco, questa trasformazione è uno spartiacque, un fossato, tra chi vi è dentro e chi ne è fuori. Anche se i punti di attraversamento, i ponti, tra le due realtà, ci sono, devono esserci. Almeno, per me.

Secondo te, perché gli intellettuali italiani non discutono di questo genere di argomenti? Il tuo articolo sulle nostre generazioni e la sessualità fluida, uscito sul settimanale Sette, è uno dei pochi che non si limita a descrivere la situazione, ma prende una decisa posizione.

C’è un’abitudine a omettere e a nascondere certi argomenti, perché non li si considera degni di discussione: esprimere le proprie posizioni sull’identità di genere, sulla rappresentazione del genere, sulla sessualità fluida forse non è ritenuta una scelta sufficientemente alta. È come se ci trovassimo continuamente di fronte a una tacita accondiscendenza, a una connivenza con una tradizione intellettuale immutabile. È un dato di fatto che in Italia gli studi di genere sono arrivati scandalosamente in ritardo e tuttora non posseggono la complessità raggiunta negli Stati Uniti o in Inghilterra.

Qualcosa, però, sta cambiando.

Ora le cose lentamente stanno cambiando, qualche segnale c’è. Però la situazione continuerà a essere molto difficile se anche gli intellettuali progressisti, parlando del regime del politicamente corretto, della cancel culture, finiscono semplicemente per sminuirli e svilirli, sfoggiando la loro superiorità morale. Mi succede sempre più spesso di incappare in questo tipo di profilo: persone, anche piuttosto giovani, fino a ieri progressiste, che riescono solo a dire che oggi va di moda indignarsi per qualsiasi cosa e rivendicano un certo gusto per la tolleranza e la pace. Che si rivela, invece, una posizione di assoluta irresponsabilità: non li si vede mai difendere quelli che ancora oggi devono essere difesi, prendere le parti di altri che non siano sé stessi o la loro categoria. Sono i nuovi sofisti, scrivono per difendere la loro posizione, questo lo trovo desolante.

C’è da dire poi che molte delle persone che occupano la scena intellettuale trascurano o ignorano i riferimenti culturali che negli ultimi tempi stanno costituendo un nuovo immaginario di valori. Penso al musical Hamilton, ai libri di Bernardine Evaristo e Paul Preciado, alle performance di Achille Lauro.

Come dicevamo prima, ad esempio anche per Achille Lauro è stata ingaggiata una campagna di svilimento e riduzionismo. Dal momento che non si è in grado di considerare e valorizzare i temi che cerca di portare sulla scena, allora lo si schiaccia su qualcos’altro, parlandone come di un’esclusiva operazione commerciale costruita con Gucci. E non si capisce perché la sensibilità e il coraggio di affrontare temi nuovi e inesplorati non possano avvalersi di un marchio che oltre al suo ufficio commerciale, comprende molti e geniali creativi. Io sono tendenzialmente ottimista, perciò credo che questa mutazione antropologica darà i suoi frutti e inevitabilmente queste voci che non riescono a sentire le questioni che animano il nostro presente si ridurranno sempre di più.

Vorrei passare adesso a Febbre_, il tuo esordio letterario, che ti coinvolge in prima persona nella dimensione narrativa. Solitamente si parla di autofiction come genere, a me invece piacerebbe considerarlo uno strumento, e allora ti chiedo: l’autofiction che utilizzi nel tuo libro è oggi l’unico strumento in grado di raccontare il presente?_

Questo tema mi appassiona molto perché si porta dietro delle resistenze da parte dell’ambiente letterario. In qualche modo, lo scrittore che parla di sé fa qualcosa di autoreferenziale o di ombelicale oppure non è pienamente uno scrittore perché uno scrittore è tale se inventa, se inventa delle trame, dei personaggi. Questa è una visione che c’è, ed è consistente, sia tra gli addetti ai lavori sia tra chi legge, ed è un’interpretazione che a me sta stretta. Perché io sono un’altra cosa, a me interessa scrivere e mi interessa la scrittura narrativa, ma radicata nella realtà. Che vuol dire tutto e vuol dire niente, la stessa realtà apre spazi per l’immaginazione, per il ricordo, per l’anticipazione del futuro, quindi per me non è affatto detto che il riferimento autobiografico significhi sradicare qualsiasi tipo di elemento immaginativo. Sai, credo che abbia a che fare con la mia formazione…

In cosa ti sei laureato?

Sono laureato in filosofia e quando scrivo sento di unire una passione per la narrazione, il racconto, il fatto di tratteggiare delle scene, delle immagini, a un mio temperamento verso le forme dell’esperienza, le strutture dell’esperienza. Nel caso di Febbre questo era importante, perché Febbre nasce anche come bisogno di reagire a una tradizione del pudore, della vergogna, del nascondimento sia sull’HIV sia sulla violenza domestica. Quindi per me era essenziale mantenere dei riferimenti nitidi con la realtà, con quei luoghi e con quelle situazioni che sarebbero stati molto distanti da ciò che volevo e molto meno potenti se li avessi raccontati usando una cornice finzionale. La distinzione tra romanzo e autofiction passa dal mantenere dei riferimenti nominali originali.

Reagire alla tradizione che tende a nascondere temi come l’HIV e la violenza domestica. Febbre si ferma al resoconto di un’esperienza privata o cerca di innescare quella mutazione antropologica di cui accennavi all’inizio della nostra conversazione?

Credo che non si fermi al racconto di qualcosa che non è stato ancora raccontato o che è stato poco raccontato. Partendo dalla mia esperienza personale, sono convinto che sia molto importante trovare dei modelli e dei prodotti culturali – libri, dischi, film…- capaci di cambiare significato a esperienze considerate vergognose o censurabili. Da adolescente ho vissuto malissimo il fatto di avere la balbuzie, gravato maggiormente dalla vergogna di celarlo, con l’effetto contrario di ingigantirne l’importanza. Ed è stato così fino a quando, a un certo punto, non sono entrate nella mia vita figure come Filippo Timi che mi hanno permesso di leggere quella mia caratteristica con toni assolutamente diversi, permettendomi di capire che era possibile essere balbuzienti e interessanti, carismatici, affascinanti. È stata una piccola rivoluzione. Quindi spero che i temi contenuti nel mio libro possano trasmettere in chi legge un’inclinazione diversa nel rapporto con sé stessi e con gli altri.

Per concludere, desidero riportati l’estratto di una recensione di Nicola Lagioia a La straniera (La Nave di Teseo) di Claudia Durastanti, altro stupendo esempio di autofiction: «Man mano che la Durastanti racconta con successo e padronanza la sua storia, per forza di cose lo status di “straniera” le si stacca di dosso come una vecchia pelle. È ancora tale – straniera – mentre scrive, non lo è più alla fine del racconto». Quando hai finito di scrivere il tuo Febbre_, quelle esperienze che hai raccontato ti sono cadute di dosso, in qualche modo la “febbre” è stata superata?_

Per certi aspetti sì, per altri forse no. Non per tutte le esperienze basta scrivere un libro per poterle archiviare, e credo che non sia possibile saperlo in anticipo. Scrivere è uno stare sulla soglia dove si può forse notare cosa è stato archiviato e cosa no. Non viviamo nel vuoto pneumatico, attorno a noi c’è un mondo che in qualsiasi momento può richiamare la nostra attenzione e riportarci su dei temi che avevamo già affrontato. Scrivere su alcune questioni ha sicuramente innescato su di me quella che in psicoterapia viene chiamata “desensibilizzazione”, rendere inattivi ricordi o eventi traumatici, ma questo non significa che si svuotino di importanza e di rilevanza, perché comunque continuano a fare parte di me e può essere che nel futuro prossimo, o meno, tornino in primo piano e si facciano sentire con una nuova voce.

Crediti immagine: Foto di Alexandr Ivanov da Pixabay

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