A Gregorovius erano sempre piaciute le riunioni del Club perché in realtà quello non era assolutamente un Club e corrispondeva quindi al suo più alto concetto sul genere. Gli piaceva Ronald per la sua anarchia, per Babs, per il modo con cui si stavano uccidendo minuziosamente senza che a loro importasse, abbandonati alla lettura di Carson McCullers, di Miller, di Raymond Queneau, al jazz, quale modesto esercizio di liberazione, al riconoscimento senza ambagi d’essere due falliti in arte.

Il gioco del mondo, Julio Cortázar.

Potremmo procedere con ordine, cominciare dal principio, ma sin dall’inizio è lo stesso Cortázar[1] che ci mette in guardia (sempre che l’inizio sia l’inizio e che non si cominci a leggere Rayuela dal capitolo 73, come consiglia lo scrittore nella sua Tavola d’orientamento): Rayuela è un’invenzione sfrenata, un gioco per lettori forti e cuori resistenti, per quelli che sanno «che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio». Partire da un tubetto, arrivare a un altro (ma non sono i dentifrici che ci interessano).

Oliveira, la Maga: la prima volta era stato un albergo di Rue Valette, ma camminando per una ventina di minuti da Rue Valette ci si può ritrovare alla Sainte-Chapelle, «quel gioiello dell’arte gotica», insieme a Zazie[2].

Camminando, sì, perché Zazie è venuta dalla provincia per vedere il metró (al Club si leggeva Queneau, no?), ma oggi c’è sciopero («Già, sì; sciopero. Il metró, questo mezzo di trasporto eminentemente parigino, s’è addormentato sotto terra, perché gli addetti alle pinze perforanti hanno interrotto qualsiasi lavoro»), Zazie però ha il «passo ginnastico» e, nonostante la rabbia e la delusione («- Ah, porci, ah, cialtroni. Farmi una roba così!») di certo non si spaventa per una camminata: inizia le sue deviazioni, si eclissa, non si cura – lei direbbe sicuramente in un altro modo, meno educato – di suo zio, non dimentica la sua meta («Prese la prima a destra, poi quella a sinistra e così via finché eccola ad una delle porte della città. Potenti grattacieli di quattro o cinque piani fiancheggiavano un corso sontuoso sui marciapiedi del quale si addensavano pidocchiose bancarelle. Una folla spessa e violacea colava un po’ dappertutto. Una venditrice ambulante di palloncini, una musichetta da lunapark aggiungevano il loro carattere discreto alla virulenza dell’esposizione»). Puntare – più o meno dritti – alla meta è facile, in fondo; meno semplice, Zazie già lo sa, trovare la propria metà.

– Mi dica, – chiese Zazie senza muoversi. – Lei, perché non è sposato?

– È la vita.

– Perché non si sposa?

– Non ho trovato nessuna che mi piaccia.

Zazie lanciò un fischio d’ammirazione.

– Molto snob, – dice.

– È così. Ma dimmi un po’, tu, quando sarai grande, credi che saranno tanti gli uomini che avrai voglia di sposare?

– Momento, – dice Zazie. – Di che cosa stiamo parlando? Di uomini o di donne?

– Di donne per me e di uomini per te.

– Non si può fare paragone, – dice Zazie.

– Questo è vero.

– Siete buffi, voialtri, – dice Zazie. – Non sapete mai bene quel che pensate. Dev’essere faticoso. È per questo che tanto spesso avete quell’aria seria?

Charles si degna di sorridere.

Gioco.

«Quel che molta gente definisce amare consiste nello scegliere una donna e sposarla. La scelgono, te lo giuro, li ho visti. Come se si potesse scegliere in amore, come se non fosse un fulmine che ti spezza le ossa e ti lascia lungo disteso in mezzo al cortile. Tu dirai che la scelgono perché-la-amano, io invece credo che avvenga tutto dall’aicsevor. Beatrice non la si sceglie, Giulietta non la si sceglie. Tu non scegli la pioggia che t’inzupperà le ossa all’uscita di un concerto».

È chiaro che, come per Rayuela, questo pezzo necessita di un lettore complice, ma per non perdere davvero il filo, bisognerà tornare al punto di partenza, o meglio, alla prima destinazione scelta, alla Sainte-Chapelle: ci incamminiamo, allora, insieme a Zazie, complici e resistenti, lottando – anche – con le parole e usando quelle di Roland Barthes come bussola («Queneau non è il primo scrittore che lotti con la letteratura. Da quando “la letteratura” esiste – vale a dire, a giudicare dalla data del termine, da pochissimo tempo – si può dire che combatterla è la funzione dello scrittore. Ma in Queneau la battaglia diventa un corpo a corpo: tutta la sua opera aderisce al mito letterario, la sua contestazione è alienata, si nutre del proprio oggetto, gli lascia sempre consistenza bastante per nuovi pasti: il nobile edificio della forma scritta rimane sempre in piedi, ma tarlato, intaccato da mille scrostature; in questa distruzione contenuta si elabora qualcosa di nuovo, di ambiguo, una specie di sospensione dei valori della forma: è come la bellezza delle rovine. Niente di vendicativo in questo movimento, l’attività di Queneau non è propriamente sarcastica, non emana da una buona coscienza ma piuttosto da una complicità»[3]).

Il peso della luce.

«Gli ammiratori di Gabriel lo avevano già confortevolmente installato, e, muniti di adeguati apparecchi, misuravano il peso della luce per poter ottenere il di lui ritratto con effetti di controluce. Benché si sentisse da tutte quelle attenzioni sommamente lusingato, si informò tuttavia della sorte di sua nipote. Saputo da Fiodor Balanovic che la suddetta si rifiutava di seguire il movimento generale, ecco ch’egli si svelle alla cerchia incantata degli xenòfoni, scende di nuovo, e si getta su Zazie che afferra per un braccio e trascina verso il bus. Crepitano le làica».

«Ogni scontro comincia con le parole, la maggior parte degli scontri non va oltre le parole»[4].

Oltre le parole: Gerda Taro, la ragazza con la Leica[5], una deviazione.

«D’altra parte, aveva già pensato allora che, con una variabile della configurazione di partenza, un piccolo intervento della casualità, Gerta Pohorylle sarebbe potuta diventare qualsiasi cosa, in una città come Parigi». Gerda, sì, misurava il peso della luce – nel disegno della storia – con la sua Leica: il peso di una vita finita troppo presto, la figlia di Parigi caduta nella lotta contro il fascismo, a Parigi ricordata, da quanti la amarono, da quanti la conobbero («Procedevano con la lentezza inesorabile delle sfilate mastodontiche, schiacciati dagli ottoni che ripetevano la marcia funebre, attraversando place de l’Opéra, imboccando scorci di Grands Boulevards, passando sopra il canale dove André Friedmann spesso aveva invidiato i pensionati pescatori, arrancando verso Ménilmontant, ristagnando all’ingresso del Père Lachaise e nei vialetti interni che portano ai Caduti della Comune»). Tra tante storie parigine sognate, scritte, vissute, una sosta nella verità. Gerda: una giovane donna che emanava incanto e grazia, forte e compatta come la verità, un punto fermo in questa passeggiata parigina.

– La verità! – esclama Gabriel (gesto). – Come se tu sapessi che cos’è. Come se qualcuno al mondo sapesse cos’è. Tutta questa roba (gesto), tutto questo, una bidonata, il Pànteon, gli Invalidi, la caserma di Reuilly, il tabaccaio dell’angolo, tutto. Sì, una bidonata.

«Io credo che tu sia la parte migliore della mia vita, la parte che si può sognare»[6].

Epilogo: fine della camminata, un tubetto.

«La notte fra il 14 e il 15 aprile 1986 Genet muore in una stanza dell’hotel Jack’s, vicino a place d’Italie. Ieri siamo andati alla brasserie Graff di place Blanche, dove Genet, come Crevel, aveva il suo regno: su un tavolo abbiamo trovato il tubetto di vaselina descritto nelle prime pagine del Diario del ladro: lo abbiamo schiacciato e ne è uscita una sostanza che sembrava madreperla fusa, iridescente e cangiante, con riflessi rosa e azzurrini e uno spolverio di pagliuzze dorate, come hanno le ali degli angeli. Era l’aura»[7].

– Non pensiamo ad altro, – disse Fiodor Balanovic. – Perché vadano via con un ricordo indimenticabile di quest’inclit’urbe nomata Parisi. E perché ci tornino.

[1]Julio Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela), Einaudi.

[2]Raymond Queneau, Zazie nel metró, Einaudi.

[3]Roland Barthes, Zazie e la letteratura è tratto dal libro Saggi critici, «Piccola Biblioteca Einaudi», pp. 80-87, Einaudi, Torino, 1972.

[4]Antonio Franchini, Quando vi ucciderete maestro?, Marsilio, 1996.

[5]Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, 2017.

[6]Sandro Veronesi, Il colibrì, La Nave di Teseo, 2019.

[7]Michele Mari, Tutto il ferro della Torre Eiffel, Einaudi, 2002.

Immagine: Parigi, Place des Vosges. Francia. Crediti immagine: unverdorben jr / Shutterstock.com

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