«Nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto, et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori». Con queste parole Vasari descriveva Iacopo Robusti (Venezia 1518-1594), detto Tintoretto perché figlio di un tintore di panni. Artista complesso e contraddittorio, sorprendeva e lasciava a volte interdetti i suoi contemporanei per le ardite e drammatiche composizioni dei suoi grandiosi teleri. Animato da un instancabile furore creativo, pare lavorasse spesso «a caso e senza disegno», per riprendere di nuovo le parole di Vasari, ed è proprio la tensione emotiva che traspare dalle sue «nuove e capricciose invenzioni», insieme al gioco inquieto di luci e ombre, che conferisce ai suoi dipinti una cifra peculiare. La mostra che si apre il 25 febbraio a Roma alle Scuderie del Quirinale colma una lunga assenza (l’ultima mostra monografica risale al 1937) ed è articolata intorno ai tre nuclei della pittura di Tintoretto, quello religioso, quello mitologico e la ritrattistica. In esposizione anche l’Ultima cena (1565-1570) conservata nella chiesa di san Polo, restaurata appena in tempo per l’occasione, che sovvertendo la tradizionale iconografia si presta a interessanti confronti con altri dipinti di Tintoretto sullo stesso tema. A condurre il visitatore nel mondo dell’artista veneziano (e nelle sale della mostra) una guida d’eccezione: il percorso si snoda infatti accompagnato dalle parole di Melania G. Mazzucco, che a Tintoretto ha dedicato approfonditi studi, ricerche d’archivio, un romanzo e una biografia.

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