Nelle intenzioni del suo presidente Charles Michel, la riunione di domani 15 dicembre del Consiglio europeo avrebbe dovuto essere scandita da discussioni poco controverse rispetto alle maratone negoziali degli ultimi mesi. E invece, le tensioni fra l’Unione Europea (UE) e l’Ungheria, il mancato accordo sull’agognato Price cap per il gas e lo scandalo Qatargate scoppiato all’interno del Parlamento europeo rischiano ancora una volta di prolungare le discussioni fino ai tempi supplementari, alzando la tensione politica al tavolo dei capi di Stato e di governo europei.
Una delle questioni più spinose riguarda il dossier ungherese: per settimane il governo guidato da Viktor Orbán ha tenuto in ostaggio l’accordo fra i 27 sull’invio di un pacchetto di aiuti da 18 miliardi di euro all’Ucraina, cercando così di mettere pressione sui suoi omologhi che minacciavano di bloccare oltre 12 miliardi di euro destinati al suo Paese, fra fondi strutturali e risorse del PNRR ungherese.
Dopo una maratona negoziale conclusasi lunedì in tarda serata, gli ambasciatori delle capitali hanno trovato un accordo per sbloccare temporaneamente la situazione, consentendo così a Orbán di guadagnare qualche settimana. Il COREPER (COmité des REprésentants PErmanents), cioè l’organismo che riunisce i rappresentanti permanenti dei Paesi membri presso l’UE, ha infatti dato il via libera a quello che veniva ormai considerato come un unico pacchetto di misure: il piano di aiuti per l’Ucraina, la tassazione minima per le grandi aziende (frutto di un accordo a livello di G20 e OCSE), e il via libera al PNRR di Budapest. L’ok al Piano nazionale di ripresa e resilienza non è però un assegno in bianco, ma rimane condizionato al raggiungimento di 27 “super traguardi”, cioè obiettivi e riforme imprescindibili per garantire il rispetto dello Stato di diritto e un’efficace lotta alla corruzione in Ungheria. Solo un passo formale, insomma, per evitare all’Ungheria l’irrimediabile perdita di gran parte dei 5,8 miliardi di euro di sovvenzioni messe a sua disposizione dal Recovery plan europeo (un’approvazione era necessaria entro la fine dell’anno). Tuttavia, nessun euro sarà versato finché Budapest non dimostrerà di aver fatto i passi avanti richiesti, così come aveva proposto la Commissione europea.
Il secondo grattacapo per Viktor Orbán riguarda invece il blocco dei fondi strutturali destinati al suo Paese per il periodo 2021-27. Su questo gli ambasciatori hanno puntato i piedi chiedendo, per la prima volta, l’attivazione del meccanismo europeo che condiziona l’erogazione delle risorse del bilancio comunitario al rispetto dello Stato di diritto. Una decisione che potrebbe privare governo, regioni e città di 6,3 miliardi di euro, pari al 55% della dotazione di tre programmi operativi per la spesa della politica di coesione (la Commissione aveva chiesto il 65%). Le ragioni sono le stesse che hanno portato al via libera condizionato al PNRR: mancato rispetto dello Stato di diritto e conseguenti rischi di malagestione del bilancio europeo. Se la decisione verrà confermata, Budapest avrà due anni di tempo per portare avanti le riforme richieste e chiedere l’assegnazione delle risorse bloccate. Altrimenti, secondo i regolamenti comunitari, dovrà comunque portare avanti i programmi d’investimento previsti dalla politica di coesione colpiti dalla misura, ma senza poter contare sul cofinanziamento europeo, affidandosi quindi solo alle casse nazionali.
Sommando PNRR e fondi di coesione, in gioco c’è l’equivalente di circa 5 punti di PIL ungherese. A Bruxelles c’è quindi già chi parla di accordi sottobanco per qualche compensazione attraverso altri fondi, europei, ma nulla è dato per scontato. «Orbán ha cominciato l’anno temendo di perdere 5,8 milioni di euro di fondi europei e comincerà il prossimo con la paura di perderne 12,15», sintetizzava ieri Politico.
La questione ungherese sarà sicuramente oggetto di discussione al tavolo dei leader europei, ed Orbán sembra già pronto a usare tutti gli strumenti a sua disposizione per far cambiare idea ai propri omologhi, come dimostrano le sue recenti esternazioni su Twitter. Dopo lo scoppio dello scandalo sulla presunta corruzione di alcuni parlamentari europei ed assistenti per favorire il Qatar durante i lavori legislativi, il primo ministro ungherese ha pubblicato un’immagine che si prende gioco dell’emiciclo di Strasburgo e delle sue “preoccupazioni” per la corruzione in Ungheria. Un attacco politico che ha come obiettivo le istituzioni e i Paesi europei che stanno bloccando l’erogazione dei fondi verso Budapest.
Durante la riunione, i leader europei saranno chiamati a discutere anche del nono pacchetto di sanzioni contro la Russia (previsto anche un intervento a distanza del presidente ucraino Volodymyr Zelenskij) e della strategia di contrasto al caro-bollette, che va dall’istituzione di un tetto al prezzo del gas importato nell’Unione fino alla creazione di nuovi strumenti finanziari comuni. Non saranno discussioni facili, e non è detto che si arrivi a una decisione chiara su entrambi i dossier.
Quello che è già stato nominato Qatargate, e che potrebbe diventare il più grosso scandalo per corruzione in un’istituzione europea, sarà però certamente al centro delle discussioni fra i capi di Stato e di governo, che come da prassi, cominceranno con un intervento della presidente del Parlamento UE Roberta Metsola. Lunedì la politica maltese è stata molto dura nel commentare l’inchiesta della magistratura belga, ma al di là dello scontro politico che sta generando, il tema di fondo riguarda la capacità di potenze straniere di arrivare fino al cuore decisionale delle istituzioni europee, e quindi la loro vulnerabilità davanti a minacce esterne. Se le accuse venissero confermate, sarebbe lecito chiedersi fino a dove siano capaci di arrivare Paesi con servizi segreti ben più organizzati di quelli del piccolo Qatar, Russia in primis. Senza contare le conseguenze che la vicenda potrebbe avere sui rapporti fra l’Unione e il Paese del Golfo, considerato un partner strategico per affrancarsi dalle forniture energetiche russe.
Lo scoppio di uno scandalo che mina la credibilità non solo del Parlamento, ma di tutte le istituzioni comunitarie, potrebbe quindi rappresentare l’ennesimo cavallo di Troia per i «nemici della democrazia» evocati da Metsola nel suo discorso al Parlamento, e l’ennesima prova per i 27 che dovranno mostrarsi uniti e determinati davanti a tale minaccia.