Il 2020 è stato l’annus horribilis nella storia dell’atroce conflitto tra terroristi jihadisti ed esercito, che insanguina la provincia di Capo Delgado, Mozambico, dal 2017. Più della metà degli oltre 800 attacchi sferrati dal gruppo Ansar al-Sunna sono avvenuti nel corso dello scorso anno e hanno sostanzialmente annullato gli sforzi dei governativi di riprendere il controllo militare dell’area, estrema punta nord-est del Paese a un passo dalla Tanzania, con l’Oceano Indiano a fare da separazione con il Madagascar. E molti degli oltre 600.000 profughi sparsi nelle altre regioni o oltre i confini, o dei 2.500 e più morti, sono stati registrati proprio nel 2020.

La notizia che il 2021 sia iniziato con un numero a scalare di attacchi, attentati e operazioni di guerriglia – cambio di passo dei ribelli attribuito dagli analisti a una nuova strategia più capillare e massiccia da parte delle forze governative – è sicuramente da accogliere con sollievo, ma non può lasciare tranquilli.

La storia di questo Paese così segnato dalla guerra – tra il 1977 e il 1992 si è lì consumato il più lungo conflitto civile d’Africa tra i ribelli della RENAMO (REsistência NAcional MOçambicana) e il partito del FRELIMO (FREnte de LIbertaçao de MOçambique), di ispirazione marxista, che ha fatto oltre un milione di morti e ridotto la popolazione allo stremo – conosce quindi un nuovo capitolo bellico che inevitabilmente frena la rincorsa allo sviluppo e la velocità dell’economia fino a qualche anno fa tra le più alte al mondo.

Capo Delgado, in realtà, è una delle provincie più povere del Paese, con il tasso di analfabetismo più elevato. A prima vista, quindi, risulta difficile comprendere l’interesse smisurato dei terroristi e l’insistenza su quell’area. La penetrazione capillare dei jihadisti, in realtà, ha motivi che affondano le radici proprio nell’economia e nella mancanza di alternative che molti giovani vivono da decenni, aggravata dalla sensazione di venire espropriati delle proprie risorse.

Tutta quell’area ai confini con la Tanzania, infatti, è ricchissima di materie prime, con enormi giacimenti di gas naturale, miniere di rubini, grafite e un numero significativo di altre risorse. Da sola potrebbe fornire ricchezze a sé e al resto del Paese, ma, a causa di uno sfruttamento lungo decenni a opera anche di compagnie straniere, gode in maniera insignificante di quanto le apparterrebbe. È la solita storia della maledizione delle risorse che in Africa miete vittime da secoli e continua a riproporre colonialismi in salsa moderna e contemporanea. Si potrebbero citare decine e decine di casi di Paesi che non solo non possono svilupparsi sfruttando i propri beni, ma si trovano precipitati in conflitti micro o macro, che vedono regolarmente coinvolte potenze straniere.

Nel caso di Delgado, i jihadisti, puntando sul malcontento generale e la gestione in alcuni casi inesistente da parte della Stato dei giacimenti e quindi delle ricchezze dell’area che ha fatto di alcune zone terre di nessuno, e sapendo quanto la provincia sia sfruttabile, hanno organizzato una penetrazione sempre più capillare. Il gioco è stato facilitato da vere e proprie deportazioni, favorite o tollerate dallo Stato per lasciare spazi agli scavi, da corruzione e repressioni violente nei casi di rivolte: l’arruolamento di forze fresche – ben pagate – nel nome di un Allah molto spesso sconosciuto, è proceduta a ritmi forsennati.

Ansar al-Sunna resta a controllo del porto di Mocímboa da Praia, un hub strategico per lo sfruttamento del gas. Molto interessata allo svolgimento del conflitto è la Total, massicciamente presente nell’area, che a dicembre ha dovuto chiedere ai suoi dipendenti di lasciare la regione così come, di riflesso, la stessa Francia: è cronaca di queste settimane la presa in considerazione, annunciata dal ministro della Difesa Florence Parly, di possibili invii di truppe a difesa dei propri interessi (una ventina di miliardi di investimenti di Total nel progetto sul Gas naturale liquefatto, GNL, decisi sul finire del 2019).

Nel frattempo continua la campagna del governo mozambicano per sottrarre forze e risorse ai jihadisti e ridurre la potenza di fuoco e di attrazione verso i giovani. Il presidente Filipe Jacinto Nyusi ha offerto a tutti i combattenti jihadisti un’amnistia e garantito protezione assoluta per tutti coloro che vorranno allontanarsi dalla lotta armata. Secondo l’esperto di storia africana Eric Morier-Genoud, come riportato da Africanews, «L’amnistia può essere molto più efficace se i ribelli sono indeboliti o divisi. In ogni caso, è ancora troppo presto per festeggiare il crollo delle violenze. È possibile che i jihadisti perdano terreno – ha aggiunto – ma non è da escludere che cercheranno di estendere il proprio raggio di azione verso altre province». «L’appello del presidente – spiega monsignor Luiz Fernando Lisboa, vescovo di Pemba, capitale della provincia – finora ha portato pochi risultati, non sembra che molti ragazzi stiano considerando l’ipotesi di lasciare le armi».

Ciò che mette in ansia Maputo è la possibilità che i gruppi islamisti si stiano riorganizzando per puntare dritti agli impianti di gas lasciando definitivamente le aree rurali. Se così fosse, una vasta area che punta sull’estrazione del gas e conta molti impianti sarebbe in ginocchio nel giro di poco tempo così come l’economia dell’intero Paese.

Purtroppo, il conflitto ha creato danni irreparabili all’attività principale della regione, l’agricoltura. Da tempo gli allevamenti e i campi sono abbandonati e incolti a causa della guerra e la susseguente fuga di centinaia di migliaia di persone.

A completare un quadro drammatico, la forza della natura. Nel 2020 due cicloni si sono abbattuti in Mozambico, uno di questi, Idal, ha colpito il centro del Paese, mentre l’altro, Kenneth, proprio la provincia di Capo Delgado. Entrambi hanno lasciato una scia di devastazione e morte. Nella parte finale dello scorso anno, invece, e in quella iniziale del 2021, è arrivato Eloise, un nuovo devastante ciclone che ha colpito la provincia centrale di Sofala e costretto nuove persone alla fuga.

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