13 gennaio 2021

Assalto a Capitol Hill. Ansia, complotto e razzismo

 

Chi ha fatto irruzione al Congresso, il 6 di gennaio? Un evento a suo modo epocale ‒ era dal 1814 che il Congresso non veniva “invaso”, ma allora era stato l’esercito inglese ‒ che possiede una portata simbolica, e i simboli non sono fatti per restituire complessità. Il dibattito che è nato attorno a questo evento si basa sulle interpretazioni del fenomeno trumpiano ‒ più o meno fondate ‒ che esperti e opinione pubblica hanno dato in questo decennio. Quando poi esso valica l’Oceano assume toni ancora diversi, perché il dibattito è influenzato anche da temi “locali”. Le questioni che sono divenute macro ‒ quindi non solo americane e che riguardano tutte le democrazie ‒ sono essenzialmente due, e di queste si dibatte in moltissimi Paesi occidentali. Chi sono gli assalitori delle istituzioni (che in termini generali diventa: “da chi è composta la base populista?”); è giusto espellere dai social network il presidente Trump (che in termini globali diventa: “come si governa l’agorà pubblica del Pianeta?”). In questo articolo di oggi ci occupiamo solo del primo tema.

 

Restiamo quindi sul “chi”; chi era presente a Capitol Hill? Chi ha guardato con favore a quanto è accaduto a Washington? È fondamentale per comprendere ciò che è davvero “solo” americano e quello che parla anche al resto d’Occidente. I grandi media americani hanno osservato i profili di decine di persone arrestate ‒ e altri elementi che è semplice reperire, soprattutto attraverso i social ‒ che descrivono una folla socialmente piuttosto trasversale, soprattutto per status economico e per posizione sociale. In comune c’è l’elemento razziale, ovvero la “whiteness”.

 

Una sintesi delle biografie ricostruite dai media USA mostra un segmento della piazza, fatto di veterani, poliziotti, piccoli e grandi commercianti, imprenditori dell’economia digitale, tuttofare, muratori, piloti di aerei, attori/doppiatori (lo sciamano), baristi, un padre disoccupato che vende mobili prodotti in casa (Adam C. Johnson, l’uomo che sorride con il podio in mano), una studentessa immigrata dalla Moldavia divenuta una leader repubblicana nel suo Stato. Diversi incriminati hanno precedenti penali (spesso rissa o violenza domestica), mentre gli arrestati provengono da almeno 36 Stati. Non i minatori disoccupati della West Virginia o gli operai delle fabbriche chiuse dell’Ohio, quelle categorie che dal 2016 sentiamo nominare come lo “zoccolo duro di Trump” – una rappresentazione notoriamente erronea, o quanto meno molto parziale –, ma neppure gli imprenditori con jet privato in grado di pagarsi alberghi di lusso (c’è stato un caso del genere, ma uno solo).

 

Naturalmente queste persone hanno qualcosa in comune: sono quasi tutti bianchi, non ci sono giovanissimi. Solo in parte si tratta di aderenti a gruppi di estrema destra come i Proud Boys o i Boogaloo Bois, che però giocano un ruolo fondamentale nel diffondere teorie del complotto on-line e, anche, a giudicare dai video, nel praticare la funzione di “avanguardia militare”, con una competenza da hooligans europei che per l’America non è più una novità. I media, ascoltando le voci della piazza, hanno raccolto molta rabbia di imprenditori o commercianti locali la cui economia è stata colpita dalle misure restrittive imposte per fermare il Coronavirus (ricordiamolo, un episodio simile a quello di Washington era capitato a Lansing, la capitale del Michigan, per protestare contro il lockdown).

 

Una piccola e media borghesia che si sente minacciata. Le minacce sono simili: la concorrenza internazionale delle grandi catene e del Big Tech, i centri urbani economicamente dinamici, le banche che non fanno credito. Oggi le politiche antipandemia. Si tratta di figure che percepiscono una perdita di peso e centralità nella società americana, talvolta a ragione, talvolta meno. Una forma di “deprivazione relativa” ‒ sono sempre assai più benestanti di quelli che vedono come antagonisti, ovvero i giovani dei centri urbani e le minoranze etniche che votano democratico ‒ che fa percepire a questi gruppi una perdita di status e centralità. Prima di dare un dollaro extra di tasse per finanziare l’istruzione e le spese sanitarie degli “altri”, preferirebbero farsi ammazzare.

 

Il colore della pelle è davvero un fattore decisivo, la “color line”. Le persone che protestano a Washington hanno in mente una storia dell’America parziale, che coincide con una narrazione pubblica vecchia di decenni e dalla quale le minoranze sono quasi assenti. Queste persone si sentono l’America e gli americani, i suoi legittimi proprietari (vi ricordate il nativista Daniel Day Lewis in Gangs of New York di Martin Scorsese? Ecco, quello). E molti di loro pensano esista un rapporto speciale fra Dio e quell’America (diversi i simboli religiosi portati in piazza il 6 gennaio).

 

Le piccole città industriali del Midwest, le contee agricole che sono state il cuore dell’America profonda si sentono non da oggi minacciate dalle città, dal ruolo e dalla visibilità crescente delle minoranze; hanno patito l’accumulazione di ricchezza avvenuta, a scapito di altri, soprattutto in alcune aree urbane, e se qualcuno racconta loro che tutto questo avviene perché c’è qualcosa sotto, ci credono. L’aspetto del razzismo profondo non può, però, essere sottovalutato e riguarda categorie diverse e status socioeconomici diversi. È la paura dell’uomo bianco, di un certo uomo bianco, di perdere potere (esiste un altro ceto medio bianco declinante, più giovane e urbano che, al contrario, si affida ai democratici nel chiedere più protezione e più welfare, alleandosi con le minoranze. Ma questa è un’altra storia).

 

Concludendo, le spinte che portano queste persone a Washington ‒ o meglio, che fanno vedere di buon occhio cosa è accaduto lì il 6 gennaio (i sondaggi dicono che sia il 25% degli americani) ‒ sono diverse ma hanno delle radici comuni. L’ansia, il pessimismo, la paura per un futuro diverso da quello di un passato mitizzato (“rivoglio l’America della mia infanzia”, diceva a ottobre un elettore settantenne innamorato di Trump), il razzismo: tutto ciò aiuta a formare l’alleanza elettorale fra un “certo 1%” e “un certo ceto medio” (ricordiamo che negli USA, al calare dei redditi, aumenta percentualmente il consenso per il Partito democratico: i repubblicani non sono il partito dei poveri e dei diseredati).

 

Non dimentichiamolo, lo stesso giorno in cui il Congresso veniva preso d’assalto uno Stato del profondo Sud e storico baluardo repubblicano, la Georgia, eleggeva al Senato un giovane ebreo intellettuale e un pastore nero, grazie a una donna afroamericana (Stacey Abrams) che ha insegnato alle minoranze e a un certo ceto urbano ‒ soprattutto femminile ‒ a organizzarsi come blocco elettorale. Un blocco elettorale ‒ con caratteristiche speciali: in Georgia la presenza delle minoranze, soprattutto quella afroamericana, fa dello Stato un luogo peculiare ‒ che chiede sanità, case a buon mercato, lavoro pagato dignitosamente, controllo delle armi a fuoco, risposte alla crisi climatica, diritti per le donne, difesa del diritto di voto, una nuova politica fiscale, giustizia per le minoranze (un tema che ha a che fare con i tribunali, le carceri e la polizia). Lo chiede, anche se sappiamo che fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare… e il Congresso degli Stati Uniti. Insomma: come non pensare a un complotto!

 

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Immagine: I sostenitori di Donald Trump protestano in Campidoglio, Capitol Hill, Washington D.C., Stati Uniti (6 gennaio 2021). Crediti: vasilis asvestas / Shutterstock.com

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