Intervista ad Andrea Iacomini*
Dall’inizio del nuovo millennio, sui bambini soldato è calata una coltre di indifferenza, nonostante le denunce delle agenzie e delle organizzazioni umanitarie. Decine di migliaia di minori sono state costrette a combattere, ma sono scomparse dalle narrazioni politiche e mediatiche. Tra il 2005 e il 2020, l’UNICEF ha contato oltre 93 mila casi di reclutamento, specificando che il numero reale è sicuramente molto più elevato. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno segnalato altri 6.310 ragazzi e ragazze entrati a far parte di eserciti e milizie. Forse, i piccoli soldati sono diventati “invisibili” perché vivono in Paesi percepiti lontani dal cosiddetto Nord del mondo. Pochissimi di noi, che abitano nelle aree più benestanti del pianeta, sanno indicarli sulla carta geografica. Non abbiamo viaggiato in questi luoghi e crediamo – erroneamente ‒ di non aver intrecciato legami. In fase di globalizzazione avanzata, però, i commerci hanno toccato tutte queste terre disastrate, a volte anche attraverso la vendita di armi. In Yemen e in Myanmar sono stati trovati resti di armi o ordigni fabbricati in Italia.
E, quindi, perché se ne parla così poco? I media, ossessionati dall’audience e da una comunicazione sempre più “social”, piatta, istantanea, sembrano incapaci di trattare una questione così vasta e complessa. Le classi dirigenti internazionali, d’altro canto, potrebbero voler nascondere i loro limiti nella gestione dei conflitti e nella tutela dell’infanzia.
Andrea Iacomini, portavoce di UNICEF Italia da dieci anni, ci aiuta a fare chiarezza: «L’utilizzo dei bambini e delle bambine soldato è un fenomeno di massa. Viviamo il periodo storico peggiore dell’età contemporanea. I piccoli soldati non sono diminuiti. E nemmeno le guerre». Al momento i conflitti armati sarebbero più di 110, secondo il portale dell’Accademia di Ginevra di Diritto umanitario internazionale e Diritti umani: «Alcuni fanno notizia, altri no. Alcuni sono iniziati di recente, altri durano da almeno 50 anni», si legge sul sito.
Una delle nazioni più pericolose per i bambini è proprio lo Yemen, «silenziato per anni dai media principali», aggiunge Iacomini che lo scorso febbraio ha diffuso alcuni dati: «Quattromila ragazzi assoldati in otto anni di guerra, dal 2015 a oggi. E 11 mila tra uccisi e rimasti mutilati, una media di 4 al giorno. Un’ecatombe». Il portavoce di UNICEF, da poco tornato dalla Libia, ha seguito l’ultima decade di crisi in Medio Oriente: «Le forze militari in Yemen sono state ancora più atroci che in Siria. Bombardavano le scuole con dentro alunni e insegnanti senza alcuna esitazione. E quasi nessuno lo diceva. Risultato: adesso una scuola su 4 è distrutta e molte di quelle rimaste sono occupate dai gruppi armati o utilizzate come rifugio per sfollati. Dall’inizio del conflitto il numero dei ragazzi che non ricevono un’istruzione è raddoppiato, sono circa 2 milioni».
Lo scorso aprile i guerriglieri sciiti Houti, che controllano il Nord, e il regime governativo sunnita, circoscritto al Sud, hanno concordato una tregua. Malgrado alcune violazioni, la presenza del sedicente Stato islamico e di al-Qaida, si spera di raggiungere un cessate il fuoco duraturo, con il benestare dell’Iran che sostiene gli Houti e della coalizione guidata dall’Arabia Saudita in sostegno dell’ex presidente Mansour Hadi e attualmente di al-Alimi. Altrimenti sarebbe una catastrofe. L’ONU ha già definito la crisi umanitaria in Yemen come la peggiore al mondo, almeno fino al 2020-21 quando si sono aggiunte quelle nel Tigray, in Myanmar e Afghanistan.
Mentre scriviamo, nel Paese arabo di 31 milioni di abitanti, 23,4 milioni – dei quali la metà minori ‒ non ricevono assistenza. Gli sfollati hanno toccato il triste record di 4,3 milioni. Laddove funziona solo la metà delle strutture sanitarie, 2,2 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta, inclusi 500 mila a rischio per la forma più grave. E le epidemie si diffondono facilmente in un territorio arido e bersaglio di crisi climatiche, come le siccità estreme. Non hanno acqua potabile 18 milioni di persone.
Vista la copresenza di tanti problemi, UNICEF interviene su tutti questi fronti, ma anche nel recupero dei piccoli soldati. «È un lavoro lungo, di anni, ma lo abbiamo sempre fatto in Palestina, Sud Sudan, Congo, Mali, Somalia, Siria», racconta fiducioso Andrea Iacomini. «In Yemen una nostra squadra di psicologi e altri specialisti collabora con le ong locali e i famigliari. Il percorso psicoterapeutico punta, quando possibile, al ricongiungimento con genitori o parenti. Si tratta di bambini profondamente violati, che guardano nel vuoto. Hanno combattuto e sono stati abusati. Come per le ragazze vittime di stupri e altri traumi, si cerca di far tornare loro la voglia di vivere».
Afrah Nasser dell’Arab Center di Washington descrive bene la dinamica che in Yemen dai tempi dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh (in carica dal 1990 al 2012) porta alla militarizzazione della sua gioventù. Benché l’utilizzo di bambini soldato sia un crimine di guerra per il diritto internazionale e vietato da leggi statali dagli anni Novanta, nelle strade di Sana’a è comune imbattersi in manifesti che pubblicizzano gruppi di ragazzi uccisi in battaglia, tutti in uniforme militare. Nella capitale yemenita queste immagini sono diffuse dalle milizie Houti, che avrebbero reclutato più minori di tutte le altre parti in guerra dal 2014, addirittura 10.333 in base ai dati aggregati dai gruppi locali per i diritti umani SAM for Rights and Liberties ed Euro-Med Human Rights Monitor.
Dai tempi di Saleh, è l’estrema povertà che spinge le famiglie a consegnare i figli agli eserciti, ma anche una mentalità che considera prestigioso portare un’arma e già adulto un ragazzo di 15 anni. A tutto questo si aggiunge la tradizione dei matrimoni precoci. Soprattutto nelle zone rurali, alcuni ventenni sono già nonni. Di questa abbondanza di bambini, che famiglie poverissime e illetterate non sono in grado di crescere, approfittano le milizie.
Afrah Nasser conclude: «Non ci sarà mai pace finché ci saranno bambini soldato». E sempre più bambine, come rilevato nell’ultimo decennio. «Il 75% dei conflitti nel mondo coinvolge bambini, dei quali ben oltre la metà femmine impiegate in attività prima imposte solo ai maschi», sottolinea Iacomini. «In Africa il 40% delle ragazze combatte. In Nigeria e in Ciad vengono trasformate in un’arma terroristica e fatte esplodere. In Medio Oriente e un po’ ovunque si occupano di supporto: trasporto, traduzione, telecomunicazioni, assistenza medica, cucina, pulizia, spionaggio». La Siria, per Iacomini, sarebbe il campo in cui grandi potenze si sono alternate prima dell’invasione russa dell’Ucraina: «Quella siriana viene considerata una guerra civile, ma è stata una guerra mondiale. E anche lì non c’erano solamente i figli di Isis come in Iraq, ma bambini reclutati da tutte le parti, anche quelle governative».
Ci salutiamo ricordando che il territorio ucraino è il più minato al mondo e che i militari russi hanno trasformato dei giocattoli in strumenti di morte per uccidere proprio i bambini. Torna alla mente anche il padre ucraino che all’inizio della guerra ha messo in posa sua figlia con in braccio un fucile. Davvero, davanti a quanto di più prezioso abbiamo, l’infanzia, non esistono più limiti?
* Andrea Iacomini è portavoce di UNICEF Italia
Immagine: Forze filogovernative contro gli Houti, Taiz, Yemen (21 settembre 2018). Crediti: anasalhajj / Shutterstock.com