12 gennaio 2022

Blasfemia in Pakistan, una ferita aperta

Un giovane pakistano si fa un selfie davanti a un cadavere in fiamme. Sulla cover del suo telefono cellulare è inciso il titolo di una serie TV di Bollywood, Apna Time Ayega, ovvero “Il nostro tempo verrà”. La scena desta orrore quanto il fatto di cronaca cui è legata: Priyantha Kumara, 49enne cittadino srilankese, direttore generale in una fabbrica nella città di Sialkot, è stato torturato, assassinato e poi il suo corpo dato alle fiamme da una folla che lo aveva accusato di blasfemia.

In seguito è emerso il pretesto del linciaggio: sembra che Kumara avesse rimosso dei manifesti del gruppo estremista islamico Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) presenti all’interno della fabbrica, prima di una visita di alcuni clienti internazionali. Dal gesto sarebbe nato un alterco con alcuni operai, degenerato in un litigio, con il tragico esito. I video dell’omicidio pubblicati sui social media hanno mostrato gli assassini che festeggiavano «per aver mandato un blasfemo all’inferno».

Una prima denuncia è stata depositata nei confronti di centinaia di uomini non identificati, molti dei quali operai della fabbrica. Con l’avvio delle indagini, decine di persone sono state arrestate. Nei giorni scorsi un tribunale antiterrorismo di Gujranwala ha disposto la custodia cautelare per 85 sospetti, accusati di essere tra gli autori del linciaggio. Con la conclusione dell’inchiesta della polizia, il 17 gennaio prossimo gli uomini si presenteranno nuovamente in tribunale, per il rinvio a giudizio.

Il primo ministro pakistano Imran Khan ha parlato con il presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, assicurando che i colpevoli «saranno perseguiti con la massima severità». Ma il grave episodio non poteva avere ripercussioni meramente legali. L’ondata di sdegno, in Pakistan e all’estero, ha innescato reazioni e riflessioni sul piano politico, culturale e religioso. Il caso di Sialkot ha riaperto una ferita che negli ultimi anni ha sanguinato copiosamente nella “terra dei puri”: quella relativa alla controversa normativa sulla blasfemia, il reato di vilipendio alla religione – in particolare all’Islam – che negli ultimi trent’anni è stata sorgente di intolleranza e violenza sociale e religiosa.

Ben prima della nascita del Pakistan – avvenuta nel 1947 in seguito alla "partizione" con l’India – nel 1860 i colonizzatori britannici avevano introdotto nel subcontinente indiano una legge anti-blasfemia al fine di controllare gli scontri tra indù e musulmani. Un secolo dopo, fu il primo ministro pakistano Zulfikar Ali Bhutto a strizzare l’occhio ai gruppi islamisti, introducendo un emendamento costituzionale che dichiarava i membri della setta Ahmadiyya “non musulmani”, aprendo la strada a un inasprimento della normativa. Ma il colpo di mano e la modifica più rilevante all’antico decreto britannico furono opera del dittatore Zia ul-Haq, un militare che, per garantirsi l’appoggio dei partiti religiosi, non esitò a perseguire un programma di islamizzazione della società. E così, al testo originale che puniva in modo generalizzato la blasfemia verso la religione (oggi l’art. 295 e 295a del codice penale), si aggiunsero due ulteriori commi (295b e 295c) che prevedono l’ergastolo o la pena di morte per chiunque insulti l’Islam, il Corano o il profeta Maometto.

L’inserimento di tali articoli nel codice penale ha dato la stura a continui abusi della legge: da un lato partiti e gruppi religiosi hanno fatto del reato di blasfemia un vessillo, ergendolo a bandiera ideologica di difesa dell’Islam, fomentando il fanatismo per acquisire consenso popolare. Dall’altro, la normativa è stata usata sempre più massicciamente per colpire o punire membri delle minoranze religiose, usando la comoda scorciatoia di accuse di blasfemia, del tutto pretestuose, verso indù e cristiani (le minoranze religiose più consistenti, rispettivamente il 2,1% e l’1,5% della popolazione di 167 milioni di abitanti, al 96% musulmani) in controversie che nulla hanno a che fare con la fede.

In mano a leader islamici senza scrupoli, la blasfemia è divenuta occasione per linciaggi di massa o omicidi extragiudiziali: tra gli oltre 70 assassini eccellenti, vi sono il ministro cattolico Shahbaz Bhatti nel 2011, reo di aver difeso la cristiana Asia Bibi, donna che era stata condannata a morte per presunta blasfemia, poi assolta nel 2019, in terzo grado, ed espatriata. Tra le tante vittime di false accuse (secondo il Centro per la giustizia sociale oltre 1.800 persone sono state accusate di blasfemia tra il 1987 e il 2021) ha suscitato clamore nel dicembre 2019, la vicenda di Junaid Hafeez, docente universitario, condannato a morte con l’accusa di aver insultato il profeta Maometto sul social network Facebook.

È pur vero che la questione del vilipendio alla religione è un tasto dolente nel mondo islamico: dei 71 Paesi al mondo che criminalizzano la blasfemia, 32 sono a maggioranza musulmana, ma la pena capitale è prevista in Iran, Pakistan, Afghanistan, Brunei, Mauritania e Arabia Saudita. In un quadro sociale e religioso già molto complesso, segnato dalle spinte di gruppi radicali ed estremisti, il governo di Khan ha cercato di mettere al bando movimenti come il TLP che ora, assumendo la blasfemia e la difesa dell’Islam come proprio asse politico portante, prepara la sua campagna di consenso, guardando alle elezioni generali del 2023.

Il pericolo, avvertono gli osservatori, è una generale assuefazione dello Stato e dell’opinione pubblica all’intolleranza e alla violenza extragiudiziale, in un quadro che vede anche i principali leader politici e le istituzioni impotenti o reticenti nell’esprimere la propria disapprovazione.

 

Immagine: Folla di persone in una strada trafficata a Peshawar, Pakistan (15 agosto 2005). Crediti: Jono Photography / Shutterstock.com

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