I militari non lo perdono di vista, lo inducono a correggere gli atti più evidentemente controversi, evitano di trovarglisi accanto quando sconsideratamente li preannuncia. Se indispensabile arrivano a contraddirlo, ma nel rispetto formale delle sue prerogative di capo dello stato (che può contare anche sul pronto soccorso di una benevola Corte Suprema). Il vice, l’appena congedato generale Hamilton Mourao, evoca la Costituzione, cita Montesquieu e la separazione dei poteri, che in buona misura le forze armate già controllano negli snodi essenziali. Per ultimo, nel clamore tutt’altro che assopito per le dimissioni del ministro della Giustizia, Sergio Moro, ha alluso alle accuse che costui rivolge all’intera famiglia presidenziale citando la condanna della corruzione espressa oltre cent’anni fa da Machado de Assis, un moderno e ironico Cicerone della Repubblica brasiliana.

Da semplice capitano dimesso dall’esercito con un foglio di servizio divenuto anch’esso motivo di controversia, Bolsonaro sembra invece disconoscere l’ironia e avere in odio la regola. “Mi chiamo Messiah ma non faccio miracoli…”, ha detto non l’aitante ieratico della serie TV di Netflix, ma il rappresentante di 120 milioni di brasiliani, che questo nome se lo è aggiunto già in età matura, nel 2016, al convertirsi alla fede evangelica per l’Assemblea Universale del Regno di Dio (senza per questo rinunciare a quella cattolica professata non meno rumorosamente fino al giorno prima). Rispondeva a una giornalista che gli domandava se l’ecatombe provocata dal coronavirus nel suo paese lo avesse scosso nel suo negativismo, ostentato con pubblici abbracci a conoscenti e sconosciuti in piena pandemia. Ma rivolto all’opinione pubblica sempre più sconcertata.

I brasiliani, che pure con le eccentricità convivono senza eccessivi problemi, tant’è che il 54% di essi soltanto 16 mesi addietro l’ha eletto alla massima magistratura dello stato, non l’hanno presa bene. L’ultima indagine demoscopica segnala che il 64,4% disapprova stile e scelte di governo. I grandi organi d’informazione, che l’hanno sostenuto amplificando a più non posso i suoi impegni in un’indimenticabile campagna elettorale (lotta senza quartiere alla corruzione, alla politica prezzolata, agli sprechi, alla violenza…), facendo in poche settimane di un semisconosciuto parlamentare di estrema destra un leader nazionale capace di rigenerare il paese in crisi, adesso ne sollecitano l’impeachment e si domandano se ci stia con la testa. A ricordarlo - nero su bianco - è il settimanale Veja, il meno volatile e il più diffuso dei periodici.

L’istituzionalità repubblicana e democratica del Brasile come sistema di pesi e contrappesi è in pezzi. Poco equilibrata lo è stata fin dalla nascita di questo governo, costruito sulla base di una presenza delle forze armate tanto massiccia da non avere precedenti dalla fine dell’ultima, ventennale dittatura, nel 1984. Poi più su amicizie e clientele personali del presidente che sulle competenze specifiche dei diversi funzionari. Le controversie sono sorte subito e divenute pubbliche per la loro virulenza, inaugurate da quella che ha opposto il senatore Flavio, il maggiore dei tre figli di Jair Bolsonaro, al suo capo di gabinetto, costretto a dimettersi dopo raffiche di reciproche accuse di malversazione finite in un’inchiesta giudiziaria attualmente in corso e fonte di ulteriori scontri, denunce e scandali all’interno della coalizione di governo.

Nelle ultime settimane, in un permanente tourbillon di polemiche, il capo dello stato ha cacciato il ministro della sanità, perché ritenuto non abbastanza osservante del principio darwiniano della “immunizzazione di gregge”, da lui invece di fatto predicato e praticato (“Mi dispiace per chi muore, ma è nella logica della vita”). Poi è stata la volta del capo della polizia federale, Mauricio Valeixo, un uomo di fiducia del ministro della Giustizia che aveva in mano l’indagine per corruzione su Flavio Bolsonaro. Moro, al quale più di un organo d’informazione chiedeva spiegazioni sulla sua presunta indulgenza verso la famiglia del presidente, ha deciso di rompere ogni vincolo e dimettersi. Era in gioco la propria credibilità personale e politica, che una parte dei militari si prepara a contrapporre e possibilmente a sostituire alla figura vistosamente logorata del presidente.

Ne è scaturita una rissa verbale i cui toni pesantissimi hanno riecheggiato quella tra il senatore Flavio Bolsonaro e alcuni suoi intimi collaboratori divenuti suoi accusatori. L’ex ministro ha detto senza mezzi termini che il capo dello stato ha interferito nell’azione della giustizia per difendere gli interessi di famiglia. Quest’ultimo ha cercato vendetta dichiarando che in cambio della sostituzione del capo della polizia, Moro pretendeva la presidenza del massimo tribunale federale. “Non posso tacere il mio disappunto - ha replicato gelidamente - per il comportamento della persona che per il ruolo ricoperto più d’ogni altra avrebbe dovuto rispettare la giustizia e le sue leggi”.  Al Congresso, dove l’ingenuità non è di casa, c’è stato autentico sbalordimento. L’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, sociologo di fama internazionale, ha invitato Jair Bolsonaro a prendere atto dell’insostenibilità della situazione.

Bolsonaro mostra però intenzioni ben diverse. E per tutta risposta, all’indomani, per dirigere la polizia federale ha chiamato un altro amico di famiglia, Alexandre Ramagem, ex capo dell’ABIN, i servizi segreti civili brasiliani. È restato di stucco quando si è visto sbarrare la strada da una sentenza del Superiore Tribunale Federale. Accogliendo il ricorso presentato dall’opposizione del Partito Democratico del Lavoro, il giudice afferma: “Gli incarichi pubblici devono garantire il rispetto non soltanto del principio fondamentale di legalità, bensì anche quelli di assenza d’interessi privati, indispensabili a proteggere la moralità e gli interessi generali”. Dunque fintanto che resta blindato all’interno del perimetro di governo, il capo dello stato può essere contrastato ma non disarmato. Diverso è quando deve confrontarsi con i poteri legislativo e giudiziario.

Per questo i militari al governo vogliono mantenere un profilo ineccepibile rispetto alla Costituzione. Devono legittimare la loro condizione di arbitri dello statu quo. Anche di fronte a un’opposizione che in attesa di leaders carismatici convoca nondimeno mezzo paese. I carri armati in piazza, l’incendio dei palazzi presidenziali e gli avversari chiusi negli stadi o fatti scomparire non si addicono ai tempi. Hanno la vicepresidenza della Repubblica e del Senato, 7 ministeri su venti ‒ i più importanti, fatta eccezione per quello dell’economia ‒, e quasi un centinaio tra viceministri, sottosegretari, direttori generali, presidenti di commissioni parlamentari. Sono struttura e infrastruttura del potere politico.

Hanno esperienza nel fare e disfare. Due secoli fa condussero il paese all’Indipendenza dal Portogallo. Poi hanno abbattuto la monarchia e dichiarato la Repubblica. Anche le opposizioni più radicali, nazionaliste e popolari ma senza popolo, dai tenenti degli anni Venti alla colonna Prestes, sono uscite dalle caserme. Per impedire diversi sbocchi agli sconvolgimenti seguiti al crollo di Wall street nel 1929, imposero l’Estado Novo di Getulio Vargas, centralista, industrialista e fascisteggiante. La corruzione l’hanno combattuta occasionalmente e mai fino in fondo. Possono gestire anche la transizione in cui si trovano con Jair Bolsonaro. È una contraddizione interna al sistema. Nel Brasile arrivato a essere la decima economia del mondo, surrogano ancora una borghesia nazionale definitivamente emancipata.

L’articolo è stato scritto per il blog di Livio Zanotti (Ildiavolononmuoremai.it)

Immagine: Jair Bolsonaro (18 aprile 2019). Crediti:  BW Press / Shutterstock.com

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