L’ultima puntata sulla storia delle primarie americane non ripercorre le vicende degli inizi del Novecento americano ‒ quando istituzioni, società e partiti furono attraversati da profondi cambiamenti, raccontati qui, che portarono all’introduzione delle primarie e ad altre riforme ‒ e non ricostruisce, nemmeno, la tumultuosa spinta democratica che alla fine degli anni Sessanta impose le primarie come unico sistema di selezione delle candidature per cariche monocratiche (raccontata qui parlando di quel 1968 incredibile, fatto di scontri e conflitti fuori e dentro la celebre Convention democratica di Chicago). Questa ultima postilla parla di calendari: per la precisione di calendari di primarie. Sembrerebbe un fatto minore, ma non lo è: la guerra dei calendari e delle regole è una guerra fra Stati. Ci ricorda che l’America è un Paese federale, che i partiti ‒ in questo caso ci interessa quello democratico, l’unico che nel 2020 affronta una vera competizione ‒ vivono di compromessi complicati fra correnti, centro e periferia. Partiamo, però, dalla nota più banale: perché si vota prima in New Hampshire e Iowa, e poi in Nevada e South Carolina? E cosa ne pensano gli altri Stati?

L’Iowa è divenuto lo Stato che apre il percorso di nomination quando il metodo delle primarie è stato istituzionalizzato dai democratici, nel 1972; è divenuto “first in the Nation” per i repubblicani nel 1976. Ma perché? Apparentemente per un motivo banale, ovvero si è lasciato che ad avviare le danze fosse un piccolo Stato che conta poco e che doveva cimentarsi in un processo molto complicato e soprattutto lungo: si parte con i precinct caucuses (praticamente le assemblee di zona), poi si svolgono le convention di contea, le convention di distretto e alla fine la convention statale (il risultato, più o meno chiaro dal principio, è però affidato a una complessa macchina di attribuzione indiretta dei delegati). Dopo il 1972, arrivarono le elezioni del 1976: in Iowa emerse un outsider che poi divenne presidente, ovvero Jimmy Carter (come sarebbe accaduto poi per Barack Obama nel 2008). In Iowa, oggi, una legge dello Stato determina che esso si posizioni sempre prima di qualsiasi altra primaria del Paese.

Nel 1976 ci si rese conto, quindi, che una elezione su piccola scala poteva trasformarsi in un palcoscenico che livellava le differenze fra i candidati poco conosciuti e quelli favoriti, rendendo la competizione più leale almeno nelle prime battute (più “democratico” un inizio in Iowa che in California). E va aggiunto che, confortati del caso Carter, i democratici del piccolo Iowa sono riusciti a convincere il partito della bontà di questa formula. Forte di questa consuetudine a presa rapida, il Democratic National Committee (DNC) ha preferito inventare la tradizione dell’Iowa primo caucus della competizione ‒ mantenendo quella del New Hampshire, il primo Stato a svolgere le primarie dal 1920, grazie anche a una legge statale ‒ piuttosto che accendere una feroce competizione fra Stati ogni quattro anni. Essere i primi porta visibilità e importanti investimenti economici che il DNC preferisce lasciare, per quieto vivere, all’Iowa: quando la Louisiana provò a forzare le regole, nel 1996, venne di fatto boicottata da candidati, partito e media. Michigan e Florida, che tentarono la forzatura nel 2008, vennero puniti e dovettero dimezzare i loro delegati alla convention.

La critica principale alla scelta di lasciare l’Iowa come primo Stato deriva dalla sua scarsa rappresentatività (soprattutto in un partito dove contano le minoranze, come quello democratico): troppo vecchio, bianco e rurale. In molti sostengono che sarebbe più corretto cominciare da uno Stato che rappresenta con più esattezza il voto nazionale ‒ c’è chi dice l’Ohio, chi la Pennsylvania, chi l’Illinois, o anche la Georgia, a seconda dei parametri utilizzati ‒, ma, sostanzialmente, nessuno spot contro l’Iowa first-in-the-nation è stato efficace quanto il disastro organizzativo del 3 febbraio. Da quel giorno si è, davvero, riaperto il dibattito sul perché questi quattro Stati ‒ non solo l’Iowa ‒ debbano cominciare per primi. Le regole del DNC permettono solo a essi di svolgere primarie in anticipo rispetto al primo martedì di marzo, e sappiamo che Nevada e South Carolina hanno “scalato il calendario” in virtù della necessità di controbilanciare l’omogeneità sociodemografica di Iowa e New Hampshire: il Nevada è a trazione ispanica e rappresenta l’Ovest, il South Carolina il Sud e l’elettorato afroamericano (che compone il 50% dell’elettorato delle primarie democratiche in quello Stato). I due Stati, va ricordato, sono stati scelti dal DNC quali terzo e quarto del processo di nomination nel 2008, dopo un ballottaggio con ‒ rispettivamente ‒ Arizona e Alabama.

Le voci a favore di un riallineamento dei calendari delle primarie si sono fatte sempre più forti, già dal 4 febbraio: il governatore dell’Illinois Jay Robert Pritzker ha portato le ragioni del suo Stato, che sarebbe “il più plurale di tutti”, al tempo stesso rurale e urbano, agricolo e high-tech, vissuto da tutte le minoranze etniche e religiose del Paese. Altri ancora hanno aggredito l’Iowa per la sua insignificanza demografica, per il sistema dei caucus (un editoriale del Los Angeles Times ha usato entrambe le ragioni), ma la verità è che cambiare è davvero troppo complicato, e molto probabilmente nel 2024 rivincerà l’inerzia. Rimane sempre la stessa domanda di fondo: se non l’Iowa, chi?

Per il resto, la selezione degli Stati che partecipano al Super Tuesday del primo martedì di marzo avviene secondo modalità abbastanza sregolate, o meglio regolate dai singoli Stati. Il Super Tuesday come lo conosciamo oggi, però, è un fatto relativamente recente, legato alla prova di forza dei democratici del Sud del 1988, che organizzarono una sorta di voto regionale allo scopo di controbilanciare il partito del Nord, considerato troppo liberal. Nel Super Tuesday si affollano tanti Stati che vogliono contare, con il risultato di nazionalizzare il voto e rendere nazionale anche la competizione elettorale e il messaggio prodotto dai candidati (plastico il caso di Michael Bloomberg, che entrerà in gara il 4 marzo). La California ha deciso di contare di più e ha spostato le sue primarie da giugno alla prima settimana di marzo, affiancandosi ad altri 13 Stati che eleggeranno in un solo giorno il 34% dei delegati (al 15 di marzo, saranno già stati assegnati il 60% dei candidati): chi fermerà, nel 2024, la voglia di contare degli Stati che oggi voteranno dopo? (FINE)

Immagine: Lunga fila di elettori che attendono di entrare nel municipio per incontrare la senatrice Amy Klobuchar due giorni prima delle primarie del New Hampshire, Nashua (N.H.), Stati Uniti (9 febbraio 2020). Crediti: Andrew Cline / Shutterstock.com

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