«È importante che intorno al tavolo si sieda un forte premier del Regno Unito con un forte mandato da parte del popolo del Regno Unito, un fatto che rafforzerà la nostra posizione negoziale per garantire che otterremo il migliore accordo possibile». Questo è il motivo delle elezioni anticipate inglesi che si terranno l’8 giugno, chiarito dal primo ministro May: la centralità politica del negoziato sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Gli eventi di questi giorni mostrano dunque il peso reale della Brexit rispetto alle elezioni britanniche. Si tratta di un macigno politico, non di un sassolino. Per la seconda volta nell’esplosiva storia della Brexit, il governo conservatore ha deciso di aprire le urne per far fronte a un problema interno al proprio partito. Stavolta è Theresa May a puntare la propria debolezza sulla ruota della fortuna politica, dopo il fallimentare gioco d’azzardo di Cameron. Il fatto è che la decisione di uscire dall’Unione Europea ha finora prodotto divisione in Gran Bretagna e coesione in Europa continentale. È un paradosso della storia, e un fatto rilevatore, che la dinamica politica dell’Unione Europea abbia generato una spinta aggregatrice non di fronte a una minaccia esterna bensì nel contrasto all’azione politica di uno Stato membro. È chiaro altresì che l’esito del negoziato sia percepito come una minaccia esistenziale all’integrità dell’Unione. In questo contesto possono intendersi le parole pronunciate da Juncker il primo maggio scorso: «Brexit non può essere un successo».

Nei giorni scorsi gli Stati dell’Unione hanno mostrato singolare comunanza nell’assumere una postura diplomatica arcigna per la definizione delle linee negoziali verso il Regno Unito. In effetti le possibilità del successo negoziale britannico, così com’è stato finora definito dal governo, sono direttamente proporzionali alla capacità d’incrinare l’unità euro-continentale. Le questioni divisive fondamentali sono tre, ben note, e altre ne seguiranno. Primo, la protezione dei diritti dei cittadini europei presenti in Gran Bretagna. Secondo, il saldo degli astronomici conti aperti che l’Unione Europea rivendica nei confronti del Regno unito (60 miliardi). Terzo, la questione della definizione dello status del confine nord-irlandese.

Sono tutte questioni scabrose che hanno già prodotto effetti dirompenti. Il più emblematico è che la peggiore delle divisioni politiche volute con Brexit, ossia quella prodotta tra le persone, si è già realizzata. Cosicché il presidente del Consiglio europeo ha rivendicato nei confronti del governo britannico «reali garanzie per il nostro popolo». Esiste dunque ormai nello schema politico un popolo europeo («il nostro») del quale quello britannico non è più parte. Se questo schema politico non muterà, produrrà ben presto effetti concreti. Ad ogni modo annuncia fin d’ora il conto salato di Brexit, il primo fra i tanti: il ritorno di un vecchio confine mentale nello spazio che s’immaginava comune. Quest’immagine di comunanza sembra per ora defunta e un simbolo politico di divisione marchia a fuoco il concetto stesso del negoziato. In questa vicenda non sorprende scoprire quanto l’Europa di Brexit assomigli, per questi versi, più a quella di Richelieu che a quella di Erasmo. «I princìpi comandano ai popoli e l’interesse comanda ai princìpi», scriveva nel 1638 il soldato ugonotto Henri de Rohan. Oggi sembra riproporsi spirito e lettera di questo motto esemplare, visibile nelle parole del presidente Hollande verso Downing Street: «L’Europa sa come difendere i propri interessi». D’altra parte la presunta pretesa della signora May che del negoziato «tutto debba rimanere segreto» reclama il ritorno a uno stile diplomatico delegittimato in Europa almeno da un secolo, ossia la diplomazia segreta. Altre pretese analoghe di questi giorni sono parse «piuttosto incredibili» e un commento diplomatico emerge significativo: «sembrano giungere da una realtà parallela». Per questo gli europei hanno invitato la May «a non farsi illusioni» e a recuperare il realismo necessario ad affrontare un negoziato che non può portare l’Europa continentale laddove l’attuale governo inglese vorrebbe condurlo: in mare aperto. È questa cornice europea che racchiude il quadro delle prossime elezioni inglesi. Chi ne sarà l’interprete migliore non è noto. Per ora, lo si voglia o no, quella parte della Manica resta ancora parte integrante del destino comune dell’Europa politica.