Nella giornata di martedì 14 novembre Theresa May – o meglio, il tavolo tecnico dei negoziatori britannici e dell’Unione Europea – ha chiuso l’accordo per l’uscita del Regno Unito dall’Unione. Un testo composto da 585 pagine che, se dovesse essere ratificato, andrà studiato nel dettaglio. Ad una prima occhiata l’accordo pare una soluzione norvegese mascherata. Infatti, nella sostanza, la Brexit in esso prefigurata porterebbe pochi cambiamenti rispetto alla situazione attuale dal punto di vista della struttura dei rapporti, tanto più che l’accordo prevede la libera circolazione dei cittadini dei Paesi membri senza la necessità di un visto per visite brevi. Anche dal punto di vista del commercio la situazione resterebbe molto simile a quella attuale: rimarrà attiva una zona di libero scambio senza tariffe, quote o altre limitazioni in cambio del rispetto di vincoli ambientali, di concorrenza e in generale di rispetto delle normative comunitarie. Questo accordo doganale serve non solo a preservare le aziende britanniche che vendono sul mercato europeo e viceversa, ma soprattutto a garantire che non ci sia bisogno di un “hard border”, un confine reale, tra Irlanda e Irlanda del Nord, come detto più volte su queste pagine, uno dei problemi più spinosi da affrontare in sede di trattative.

Insomma, per la Gran Bretagna questo accordo pare una Caporetto: infatti, da un lato rimangono in piedi tutti gli aspetti “controversi” dell’appartenenza all’Unione senza però avere più alcun potere decisionale in seno alle istituzioni europee.

Tuttavia, questo accordo è ben lungi dall’essere approvato. Nella giornata di ieri, infatti, la May ha incassato il via libera da parte del suo Consiglio dei ministri, ma questo è stato solo il primo passo del lungo iter che porterà all’approvazione dell’accordo che alla fine dovrà essere ratificato dal Consiglio europeo. Innanzitutto perché già in seno al suo stesso governo, ci dicono le indiscrezioni, l’approvazione della bozza di accordo non è stata affatto unanime anzi: si è evitato di votare formalmente l’accordo proprio per non sancire la spaccatura del governo. Pare, insomma, il riproporsi di quanto successo a luglio in occasione della proposta di Chequers: la May aveva annunciato l’accordo nel governo e il giorno dopo diversi ministri si sono dimessi.

Ad ogni modo ora la May deve presentare l’accordo in Parlamento e ottenerne l’approvazione. Approvazione tutt’altro che scontata visto che sono sul piede di guerra moltissimi dei suoi stessi parlamentari, fedeli a Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg che hanno promesso battaglia, così come il DUP (Democratic Unionist Party), l’alleato di governo – fondamentale per ottenere una maggioranza –, che ha già annunciato di non essere a favore dell’accordo. Ovviamente anche il Partito laburista ha annunciato di volersi opporre e dunque la May potrebbe non avere in numeri per portare a casa il sì della House of Commons.

Proprio per questo nella conferenza stampa di ieri sera il primo ministro ha drammatizzato la scelta che si pone di fronte al Paese e al Parlamento, specificando che l’accordo attuale è l’unico che possa evitare un No Deal o l’annullamento della Brexit. In questo ha smentito piuttosto clamorosamente uno dei suoi slogan principali di questi mesi e cioè che “no deal is better then a bad deal” e cioè che un’uscita unilaterale sarebbe stata uno scenario migliore di un brutto accordo.

Ancora una volta la May sembra giocarsi il tutto per tutto nella speranza di superare la nottata, confidando nello spirito di sopravvivenza del suo partito che, per paura di perdere il potere, potrebbe superare di nuovo le proprie spaccature interne e, pur protestando e sbattendo i piedi, una volta di più premiare la capacità del primo ministro di sopravvivere alla burrasca.

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