L’uccisione di Giovanni Lo Porto in Pakistan è avvenuta per mano di chi? Tecnicamente di un oggetto violento non identificabile: un Drone da guerra. Uno degli oltre 6000 che pattugliano i cieli afghani e pakistani, compiendo in media un attacco ogni quattro giorni. Quest’arma ha un impiego straordinario: il numero di droni armati americani è aumentato del 1200% dal 2005. Negli Stati Uniti si formano forse più operatori di droni che piloti da guerra. Concretamente, dunque, l’uccisione di Lo Porto è avvenuta per mano di una persona. Ma Lo Porto, è stato detto, è un “danno collaterale” della dronizzazione della guerra. Nessuno sapeva della sua presenza laggiù. Che sia vero è ininfluente, perché il problema politico che il Drone genera sta tutto nell’incapacità di convertire un’immagine visiva, costruita per somma di indizi probabili (il ‘target’), in una definizione di bersaglio legittimo. Annulla di fatto la distinzione fondamentale che ritaglia uno spazio d’immunità per le persone: la distinzione tra civili e combattenti. La annulla perché il drone non mantiene le promesse del miraggio tecnologico che lo ha generato, ben riassunto dalla propaganda: “Nessuno muore eccetto il nemico”. È vero il contrario: tutti possono morire, e spesso muoiono, quando è l’ora di colpire, ossia sempre. Donne pakistane, bambini afghani, civili italiani colpiti da bombe in cerca di bersaglio.

Il Drone difatti non avverte e non irrompe. Il Drone colpisce silente. Vede tutto dal cielo ma in fondo è cieco perché non può riconoscere alcun effetto reale sul terreno. È pura violenza, senza corpo e senza mente, perché corpo e mente sono dislocati a migliaia di chilometri. Là, di fronte agli schermi, i piloti dei droni sono invulnerabili e non hanno alcun rapporto col rischio della morte. Al massimo, con le nevrosi da macabra routine. In effetti, non c’è sangue sullo schermo. Solo coordinate. Per loro che guidano la morte a distanza, essa è non solo impossibile bensì astratta. Non esiste perché non esiste nemico concreto, né reale campo di battaglia. Solo il Drone pilotato esiste e colpisce dal cielo, solitario. Nessuno combatte proprio perché lui interviene, cioè si pone in mezzo. Matteo Renzi ha ben spiegato tutto: “Non si è trattato di un blitz, gli Stati Uniti non hanno cercato di liberare ostaggi. Si è trattato di un intervento di cui solo tempo dopo si è capito che non aveva colpito soltanto terroristi di Al Qaida ma anche altre due persone”. Nella guerra al terrore nessuno era pronto a morire per Lo Porto. L’operatore del drone stava in un ufficio. Amministrava la guerra da una zona di pace, incarnando la rassicurante contraddizione della nostra società in guerra permanente all’esterno ma in pace costante all’interno. Solo lui, l’operatore, ha vissuto sulla sua pelle questa duplicità che ha un chiaro effetto dissociante. Oltre a lui nessuno può veramente collegare decisioni, azioni e risultati in modo distinguibile – ammesso che lui possa. Se è così, la dronizzazione della guerra è l’apoteosi di una procedura di separazione materiale e morale, dall’effetto confondente, fra noi e la realtà della guerra: tutto è legittimo, a prescindere. Si è allora giunti a uno stadio importante dell’età dell’immaginario virtuale. Esso non permette neanche più d’assistere alla morte in guerra, come durante i bombardamenti aerei trasmessi in TV, ma solo d’immaginarla. Di qui la domanda: l’operatore del drone è ancora un vero soldato, l’unità politica nel nome della quale uccide? Lo è, risponde Barack Obama che si è assunto la responsabilità di quanto accaduto. Renzi ha però instillato un dubbio: “La responsabilità è chiara”, ha detto, riferendosi agli ostaggi morti, perché “erano nelle mani di un’organizzazione terroristica che ne ha messo a rischio la vita”. Paolo Gentiloni ha mostrato più certezze: la responsabilità è “integralmente dei terroristi”. Con una spiazzante selezione morale si esclude dal computo bellico chi la vita l’ha tolta in un intervento detto “di guerra” ma che, a rigore, guerra non è per un semplice motivo: non esiste guerra senza responsabilità, seppur minima, per chi la combatte effettivamente. Il disallineamento tra la nostra società che dà mandato alla politica di uccidere nella guerra al terrore e l’esistenza stessa di quella guerra è quindi totale. Toglie persino la possibilità di una concreta empatia per le vittime che non sia pura retorica umanitaria, ovvero dissimulazione politica.

In fondo, però, costoro sembrano aver ragione. L’operatore del drone amministra la morte del bersaglio, legittimo o no, sottraendoci definitivamente dal codice della guerra e dalle sue scabrose implicazioni sociali e dal problema della scelta. Nessuna apparente responsabilità è iscritta nella routine dei raid di armamenti robotici senza uomini a bordo e perennemente in azione. Nessuna scelta esecutiva spetta alla politica, se non la burocratica autorizzazione di un ciclo perpetuo di bombardamenti. Non ci sono caduti da ricordare a futura memoria; solo morti. Nessun ricordo, nessun onore, nessun disonore. Vuoto politico. D’altronde, chi ha condotto il Drone sul cielo pakistano non poteva cadere in una guerra che non c’è. Si trovava in un rifugio climatizzato, forse in Nevada. Come noi, quel giorno ha ‘staccato’ tornando a casa. Non sappiamo se indossasse lo stemma del celebre drone MQ 9. Sappiamo invece della visionaria lucidità di quello stemma, con la morte mietitrice dalla falce acuminata e gocciolante sangue. Riassume nel proprio motto, truculento ma onesto, l’etica del drone, superba sintesi della nostra etica: “Che muoiano gli altri”.