Le schermaglie tra Cina e India nella regione del Ladakh orientale, più precisamente nella valle di Galwan, hanno monopolizzato, a buon titolo, le pagine della cronaca internazionale negli scorsi giorni. Lo scontro si è verificato all’interno della cosiddetta Linea di controllo effettiva, controverso termine adottato dopo la guerra del 1962 e che indica il contestato confine indo-cinese. I territori contesi da Pechino e Nuova Delhi sono l’Aksai Chin, regione himalayana sostanzialmente divisa tra il Ladakh indiano e lo Xinjian cinese, e l’Arunachal Pradesh.

Le prime, e confuse, ricostruzioni sembravano meno realistiche di un qualsiasi film di Wu Jing. Durante lo scontro, che si sarebbe concretizzato senza l’ausilio di armi da fuoco per entrambi gli schieramenti, circa venti soldati indiani avrebbero perso la vita, mentre dodici si trovano in condizioni gravi. Alcuni soldati indiani sarebbero stati letteralmente picchiati a morte, mentre per altri il decesso sarebbe sopraggiunto per ipotermia. Da parte cinese non è ancora arrivato nessun comunicato ufficiale circa il conto di morti e feriti, ed è anzi possibile che non ne venga mai rilasciato uno. Il faccia a faccia della valle di Galwan presenta il più alto conto in vite umane dall’incidente di Nathu La del 1967, ed è la prima volta dal 1975 che si contano vittime nella Linea di controllo effettiva.

Secondo le fonti indiane questa violenza arriva come un fulmine a ciel sereno, poiché le due parti erano attivamente impegnate in un processo di ridimensionamento delle attività nella valle di Galwan. Un’ulteriore conferma di ciò è arrivata dal ministero degli Affari esteri indiano, che in un comunicato ha sì confermato che le trattative con Pechino andavano avanti dall’inizio di maggio, ma ha anche accusato la Cina di aver violato lo status quo raggiunto e provocato così lo scoppio delle ostilità. Accuse che sono state completamente rigettate dalla controparte cinese, che anzi accusa Nuova Delhi di aver violato gli accordi, ossia di aver superato illegalmente la Linea di controllo effettiva e aver deliberatamente provocato una reazione violenta da parte dei soldati cinesi.

Sebbene lo scontro del 17 giugno sia certamente il più rilevante, non è l’unico episodio recente in cui la Cina ribadisce la propria assertività in un contenzioso territoriale.

Nel mese di maggio la situazione nel Mar Cinese Meridionale è ritornata di grande attualità, dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuovi distretti amministrativi: il Distretto di Xisha, che include le Isole Paracel e il Macclesfield Bank, e il Distretto di Nansha, concentrato sulle Isole Spratly. Le due nuove unità cadranno sotto l’autorità dell’amministrazione locale di Sansha, città sorta su Woody Island e parte della provincia di Hainan. Una mossa che è parte integrante della strategia marittima cinese e permetterà a Pechino di avere una presa sempre più salda sulla prima catena di isole, e si tradurrà nella creazione di infrastrutture e nel tentativo di popolare alcune isole. Oltre alle abitazioni, alle scuole e agli uffici amministrativi, Pechino sta cercando di dare un forte connotato turistico al Mar Cinese Meridionale. Con la creazione di resort turistici e le conseguenti rotte civili per trasportarvi i turisti, sarà molto più complicato mantenere la libertà di navigazione tanto cara agli Stati Uniti.

L’annuncio cinese ha causato l’animata risposta vietnamita, principale rivale della Cina per la sovranità sulla maggior parte delle isole sopracitate, che ha ribadito il proprio diritto storico, ed esclusivo, sulle stesse. La Marina Militare cinese, inoltre, ha già lasciato intendere che a breve dovrebbe partire la fase estiva delle esercitazioni marittime, solitamente molto fitta.

Sempre nel mese di maggio, è tornato alla ribalta anche il contenzioso con il Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku, nel Mar Cinese Orientale. Due imbarcazioni della guardia costiera cinese si sono lanciate alla rincorsa di un peschereccio giapponese, entrando così nelle acque territoriali nipponiche. A difesa dei civili, sono arrivate diverse vedette della guardia costiera giapponese, che hanno intimato alla controparte cinese di tornare indietro e consentire le regolari operazioni di pesca. Nessuna delle due parti si è dimostrata disposta a retrocedere, creando così uno stallo che si è protratto per due giorni. Alla scontata protesta giapponese, che accusa Pechino di aver violato le proprie acque territoriali, è seguita l’altrettanto prevedibile risposta cinese, la cui giustificazione è riconducibile al disconoscimento della sovranità di Tokyo, per cui l’approccio all’imbarcazione nipponica era un legittimo atto di tutela dei propri interessi. Cina e Giappone non sono nuovi a valzer di questo tipo, si potrebbe anzi dire che è ormai una prassi standardizzata nel contenzioso del Mar Cinese Orientale. Ogni anno la Cina impone un blocco unilaterale alle attività di pesca, che il Giappone ovviamente non riconosce e, anzi, sfrutta per denunciare l’ingerenza cinese. Come è probabilmente intuibile dal contesto, il vero ago della bilancia non è tanto la sovranità su una manciata di isolotti e scogli, ma conquistare il primato per quanto riguarda i diritti di pesca.

India, Giappone e Vietnam sono indubbiamente i principali ostacoli per le velleità territoriali della Repubblica Popolare. Sebbene di diverse, e interscambiabili, intensità, questi contenziosi sono spesso usati da Pechino per lanciare un messaggio nell’arena regionale. Quello che abbiamo cercato di illustrare è un tipico modus operandi cinese, che sovente ribadisce la propria forte presenza in sede di contenzioso quando la comunità internazionale è concentrata altrove. Stavolta ha approfittato di un’apparente tregua dal Coronavirus, e degli occhi puntati sulle violente proteste negli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd. Non deve essere tralasciata anche la complessa situazione interna del Paese, con ancora vivi gli strascichi della pandemia e il timore di una seconda ondata, che va a sommarsi al difficile momento economico. Il risultato è una delle equazioni più care alla leadership cinese: quando la crescita rallenta, il nazionalismo accelera.

Immagine: Base dell’esercito indiano sulla strada da Hunder alla valle della Nubra, Hunder, Leh, Ladakh (3 settembre 2018). Crediti: RUCHUDA BOONPLIEN / Shutterstock.com

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