4 febbraio 2020

50 anni dopo, cosa resta del Biafra?

Biafra: pronunciarne il nome attiva immediatamente nella mente l’immagine di bambini africani con il piccolo ventre gonfio e lo sguardo disperato. Ma a 50 anni esatti dalla guerra civile e dalla conseguente crisi umanitaria, che costò la vita ad almeno un milione di civili, cosa resta di una regione africana scomparsa nel frattempo dai radar dei media globali? Forse molto più di quanto pensiamo, nascosto sotto altri nomi.

Oggi il Biafra, in effetti, sulle mappe non esiste più. Suddiviso e ripartito dalla Nigeria tra gli Stati federali di Abia, Akwa Ibom, Anambra, Bayelsa, Cross Rivers, Ebonyi, Enugu, Imo e Rivers. Ma riferimenti al Biafra compaiono nelle carte degli esploratori europei fin dal XIV secolo, a indicare le terre circostanti al grande golfo dove il fiume Niger incontra l’Atlantico. E tra il luglio 1967 e il gennaio 1970 il Biafra fu anche uno Stato: la Repubblica del Biafra, autoproclamatasi indipendente dopo una lunga serie di tensioni e scontri etnici e religiosi tra le diverse comunità della Nigeria. La stessa Nigeria era stata fondata appena 7 anni prima, al termine del regime coloniale britannico, ed era suddivisa in modo trasversale tra musulmani a nord e cristiani a sud. Questi ultimi, a loro volta divisi tra due principali etnie: gli Yoruba a ovest e la minoranza Igbo a est.

Il tentativo degli Igbo di costituire uno Stato indipendente si scontrò, da un lato, con la difficoltà di ottenere un riconoscimento internazionale ‒ formalmente soltanto quello di Gabon, Haiti, Costa d’Avorio, Tanzania e Zambia, mentre Francia, Spagna, Israele e il Vaticano fornivano un appoggio non ufficiale ‒, dall’altro, con la supremazia militare delle truppe nigeriane, supportate dall’Unione Sovietica, ma soprattutto dal Regno Unito. Quest’ultimo interessato a dimostrare l’efficacia dello Stato che aveva appena creato e a mantenere il controllo delle riserve di petrolio presenti in Biafra, in gran parte di proprietà di Shell-British Petroleum.

E proprio i britannici svolsero un ruolo cruciale nel blocco navale, che fu la principale causa del successivo disastro umanitario. Vista la capacità di resistenza delle truppe del Biafra davanti alle offensive nigeriane, a partire dall’estate del 1968 il governo della Nigeria procedette al completo accerchiamento del Biafra, che si ritrovò isolato da ogni linea di rifornimento. In breve, carestie, epidemie e bombardamenti misero in ginocchio l’intera popolazione. Sono le immagini dei civili vittima di questa situazione, in particolare bambini, a raggiungere l’Europa, ottenendo un’enorme visibilità. Campagne umanitarie si attivano in moltissimi Paesi, arrivando a organizzare un ponte aereo, con piccoli aerei privati, per tentare di rifornire il Biafra di beni di prima necessità, partendo dall’isola portoghese di São Tomé. La tragedia del Biafra sconvolge l’opinione pubblica mondiale e contribuisce in modo decisivo al nascere delle realtà di volontariato e supporto all’allora Terzo mondo. Proprio dall’esperienza in Biafra, ad esempio, sarà fondata Medici Senza Frontiere.

Ma la mobilitazione internazionale non impedì, infine, la caduta della Repubblica del Biafra, resa definitiva dalla fuga in Costa d’Avorio da parte del presidente Chukwuemeka Odumegwu, detto Emeka, Ojukwu. Colui che da ricchissimo laureato ad Oxford (così come all’accademia britannica di Sandhurst si era diplomato il capo di Stato nigeriano, Yakubu Gowon) aveva per primo avviato il percorso verso l’indipendenza. Dopo la guerra, la Nigeria procedette alla rimozione pressoché totale dell’esistenza del Biafra, fino a cancellarne i riferimenti anche dall’omonimo golfo, ribattezzato Golfo di Bonny. Facendo così scomparire il Biafra dai mappamondi e anche dal discorso pubblico internazionale.

Ma seguendo le tracce del petrolio, cui già si è accennato come elemento cruciale del conflitto, si scopre che in realtà del Biafra abbiamo, in un certo senso, continuato a sentire parlare in tutti questi anni. Anche se spesso senza rendercene conto. I giacimenti di petrolio nigeriani, un tempo del Biafra, sono infatti gli stessi che British Petroleum, Shell, Esso, Total e anche l’italiana Eni sfruttano nel delta del Niger, tra mille controversie. E se del Biafra non si è più sentito parlare, del delta del Niger ben si conoscono le terribili condizioni di vita e le gravissime conseguenze ambientali portate dall’industria petrolifera a questa terra, riconosciuta tra i luoghi più inquinati del pianeta.

Se il Biafra è svanito, dunque, non è venuta meno l’emergenza: in queste zone ricchissime di petrolio vivono ancora le popolazioni più povere della Nigeria, con una speranza di vita bassissima e un ecosistema compromesso nel quale è ormai un’impresa anche solo praticare un’agricoltura di sussistenza. Non è un caso che proprio da questa zona, qualunque sia il nome con cui la si chiami, venga una gran parte dei migranti nigeriani in Italia. Soltanto che al proprio arrivo in Europa, in quanto formalmente nigeriani, non possono chiedere lo status di esiliati politici, né di rifugiati ambientali. Finendo quindi per essere etichettati nell’ampio alveo degli immigrati economici.

Questo avviene nonostante ancora persistano l’oppressione politica nei loro confronti e le drammatiche disuguaglianze economiche che ne sono una conseguenza. Nonostante siano state tutte queste condizioni a fornire il terreno fertile per la costituzione e il reclutamento della mafia nigeriana, che proprio in quest’area ha il suo epicentro. E che proprio qui ha il principale bacino da cui procurarsi le giovani donne vittime della tratta della prostituzione: dove è più facile, dove sono più deboli e talmente disperate da volersene andare a qualunque costo.

Ma se abbiamo, infine, ricostruito il quadro cupo di cosa ne sia stato di quello che un tempo era il Biafra, manca un ultimo tassello a questo rompicapo, ovvero cosa ne sia stato della rivendicazione politica di indipendenza, che aveva portato alla breve e fallimentare esperienza della Repubblica del Biafra. L’allora leader Ojukwu è morto in esilio, ma negli ultimi 20 anni la causa del Biafra è tornata timidamente ad affacciarsi sulla scena politica. Prima con il Movimento per l’attualizzazione dello Stato Sovrano del Biafra, che tra il 1999 e il 2007 era riuscito a raccogliere un certo sostegno, causando però una reazione del governo nigeriano, che attraverso arresti e presunte esecuzioni, ha efficacemente indebolito l’organizzazione indipendentista.

Più recentemente, l’attenzione si è spostata sul PIB (movimento dei Popoli Indigeni del Biafra), che oltre agli Igbo unisce anche altre minoranze del Sud e Sud-Est nigeriano, unite contro il governo centrale. Sul fronte internazionale, il PIB ha dichiarato di ritenere strategico il potenziale appoggio di Donald Trump, che potrebbe essere interessato a garantire agli Stati Uniti l’uso del petrolio nigeriano, oggi in mano a società europee e con un flusso irregolare e insicuro per via dell’instabilità dell’area. Ma a partire dal 2017 anche il PIB è stato inserito dalla Nigeria tra le organizzazioni terroristiche e il suo leader, Nnamdi Kanu, ha evitato l’arresto fuggendo all’estero in esilio.

Nello stesso anno, il cinquantesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza era stato celebrato dai sostenitori con uno sciopero pacifico, che aveva fermato per un giorno l’intera regione. Ma il cinquantesimo anniversario della sconfitta, che cadeva pochi giorni fa, è stato quasi dimenticato. Con la sola eccezione di alcuni articoli sulla stampa britannica, che condannavano le scelte fatte allora dal Regno Unito. Come se quello che resta del Biafra, in fondo, fosse soltanto il senso di colpa.

 

Immagine: Manifestazione del movimento separatista Popoli indigeni di Biafra in piazza Trafalgar a Londra, Regno Unito (30 maggio 2018). Crediti: Jaroslav Moravcik / Shutterstock.com

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