Il referendum nel Kurdistan iracheno si è risolto in una debacle completa per la leadership guidata dal presidente Masoud Barzani. Non solo ha allontanato di molti anni il sogno di uno Stato indipendente, ma ha anche messo in serio pericolo l’autonomia conquistata con gli accordi costituzionali post-Saddam del 2003. Anche la società curda ne esce lacerata, con una rinnovata animosità interna tra i sostenitori del referendum e quei gruppi che invece, prevedendo il risultato o subendo pressioni dai Paesi vicini, avevano cercato di convincere il presidente Barzani a rinunciare alla chiamata alle urne.

Proprio Barzani, che puntava a fare dello scontato esito referendario un importante capitale politico da spendere sia internamente, con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali, sia all’esterno nelle trattative con Baghdad, è risultato il grande sconfitto. Abbandonato dall’Occidente in cui confidava, ha vanificato i sacrifici sostenuti nella lotta allo Stato islamico, che avevano portato il Kurdistan iracheno alla ribalta mondiale grazie alle gesta dei suoi peshmerga.

L’ostilità verso il referendum è stata forte più che mai a Baghdad, con il governo centrale contrario a ogni ipotesi di smembramento dello Stato iracheno. Ma non meno forte è stata l’opposizione dei Paesi vicini, Iran e Turchia.

Nonostante i buoni rapporti tra Barzani e il presidente turco Tayyip Erdoğan, quest’ultimo ha considerato il referendum una sorta di tradimento personale.

Alla base dell’ostracismo di Ankara c’è la convinzione assoluta e ideologica che il sorgere ai suoi confini di una qualunque entità politica curda pienamente indipendente rappresenti una minaccia concreta alla propria integrità territoriale, perché andrebbe ad alimentare il desiderio di secessione della propria comunità curda, stimata tra i 15 e i 20 milioni di individui. Inoltre, la Turchia avverte un legame storico con la regione del Nord dell’Iraq, dove un tempo c’erano importanti provincie amministrative ottomane e, nella narrativa della forte destra nazionalista turca, oggetto di un sogno irredentistico mai sopito.

La Turchia ha quindi ostacolato in ogni modo il referendum, cercando al contempo di preservare i propri interessi strategici nell’area: da un lato garantire l’accesso militare al territorio per combattere il PKK (Partîya karkerén Kurdîstan; Partito dei lavoratori del Kurdistan) l’organizzazione armata autonomista in lotta con Ankara dagli anni Ottanta; dall’altro preservare quei corridoi energetici che, portando un enorme flusso di petrolio e di gas, prima attraversano una Turchia di per sé affamata di energia e poi conducono verso l’ancora più lucrativo mercato europeo.

Per portare a casa il risultato, Ankara ha impresso una decisa e improvvisa sterzata ai rapporti con i governi iracheno e iraniano.

Con Baghdad i rapporti erano gelidi per due ragioni: la presenza militare turca nell’area di Bashiqa, testa di ponte delle forze armate turche nella lotta contro il PKK considerata dall’Iraq una violazione della propria sovranità territoriale, e soprattutto l’aiuto economico che Ankara aveva fornito al governo regionale del Kurdistan. Il budget del KRG (Kurdish Regional Government) dipende in modo importante dalla Turchia, sia grazie ai prestiti concessi, sia per l’acquisto di gas e di petrolio che aveva consentito a Barzani di aggirare l’isolamento economico imposto dal governo iracheno.

La diffidenza nei rapporti con Teheran nasce invece sia dalla presenza delle milizie iraniane sciite in Iraq, che soltanto poche settimane prima Erdoğan definiva terroriste, sia dal fatto che la Turchia resta un Paese NATO, quindi ostile all’Iran per quanto il governo turco stia compiendo sforzi per svincolare la propria politica estera dalle esigenze del Patto atlantico.

La possibilità di uno Stato curdo indipendente ha sepolto le reciproche differenze e consentito l’avvicinamento dei tre Paesi. La cooperazione dei tre sia a livello economico che militare ha stretto la regione curda in una morsa soffocante. La chiusura degli spazi aerei e le operazioni militari volte a riaffermare il controllo dei governi centrali sui valichi di frontiera tra i due Paesi sono state uno sfoggio di forza notevole. Soprattutto hanno consentito ad Ankara di progredire nello sforzo di frantumare la contiguità geografica tra le varie regioni curde tra Siria e Iraq. Inoltre Ankara, contrariamente a quanto fatto sinora, ha indicato nel governo iracheno l’unico legittimo interlocutore per la compravendita di greggio e di gas.

L’efficacia di queste azioni è stata accresciuta dal mancato sostegno americano ed europeo al referendum, che ha galvanizzato Baghdad e dato il via libera alla riconquista da parte dell’esercito iracheno dei territori contesi: Kirkuk, il Sinjar, l’area a nord di Mosul.

La capitolazione di Masoud Barzani è culminata con le sue dimissioni, fortemente richieste anche dalla Turchia. Tuttavia, Ankara vuole mantenere la sua influenza sulla regione e per farlo deve trovare un nuovo interlocutore che, nel lungo termine, non può essere il governo di Baghdad, con cui i vecchi dissapori sono sempre pronti a riaffiorare.

La strada scelta dal governo turco è il tentativo di riconciliazione con il partito KDP (Kurdistan Democratic Party), riaffermando su questo, e quindi sul territorio, un controllo efficace.

Il KDP è infatti sempre saldamente in mano ai Barzani grazie alla sua struttura clientelare. Cercando di facilitare il passaggio di consegne tra l’ex presidente Masoud e il figlio Nechirvan, già primo ministro del governo regionale curdo e fautore degli accordi energetici tra Ankara ed Erbil, Ankara cerca di ripristinare lo status quo precedente nella speranza che la lezione sia stata appresa.

Infatti, per quanto sia la destituzione di Barzani sia il riaprirsi delle divisioni in seno alla società curda rappresentino per Ankara dei successi, l’attuale vuoto di potere e la frustrazione del sentimento indipendentista curdo costituiscono il terreno ideale per la conquista di consenso popolare da parte del PKK, che nella regione ha combattuto lo Stato Islamico quanto i peshmerga e ha anche tentato di opporsi, simbolicamente ma in modo assai efficace dal punto di vista mediatico, alle forze irachene che riconquistavano Kirkuk e gli altri territori rivendicati senza successo da Erbil.

Il via libera ottenuto dall’esercito turco da parte di Baghdad alle rinnovate operazioni militari contro il PKK infliggono sì pesanti danni alle forze e alla struttura logistica dell’organizzazione autonomista curda, ma nel lungo periodo la destabilizzazione politica dell’area potrebbe condurre a un rafforzamento del nemico numero uno della Turchia. Un’eventualità che ad Ankara vogliono scongiurare a ogni costo.

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