Il futuro dell’Europa è un tema che appassiona molto gli addetti ai lavori ma, molto spesso, fatica a sfondare nel dibattito pubblico. Avvenne un po’ negli anni Settanta, grazie soprattutto all’impegno instancabile di Altiero Spinelli, oggi però quella carica civile e politica pare svanita: fuori dalle polemiche estemporanee della giornata, forse l’ultimo vero momento di catarsi collettiva nei confronti del “mostro buono di Bruxelles” (per citare il solito Enzensberger) fu l’introduzione dell’euro, nel 2001.

L’anno appena trascorso, però, ci ha offerto una nuova consapevolezza: Next Generation EU ‒ definito dall’Economist «il più importante salto costituzionale europeo dai tempi della moneta unica» ‒ ha segnato una svolta importantissima e, con il drammatico aggravarsi della pandemia, l’Europa ha saputo prendersi le sue responsabilità sia in termini di salute pubblica che di coordinamento dei suoi, spesso riottosi, componenti. Con la Conferenza sul futuro dell’Europa, lanciata solennemente durante la sessione plenaria del Parlamento europeo di marzo 2020, i presidenti delle tre istituzioni principali, Ursula von der Leyen, David Sassoli e Charles Michel, hanno voluto gettare il cuore oltre l’ostacolo, provando a immaginare un grande dibattito sui destini continentali che non finisca per impantanarsi tra cancellerie, ambasciate e velluti parlamentari.

Non sarà il Continental Congress che diede slancio alla democrazia americana, ma, nelle intenzioni degli organizzatori, dovrebbe somigliargli almeno un poco: l’idea di fondo è costruire una struttura ‒ dotata di una propria segreteria, apposite piattaforme tecnologiche e organizzazione ‒ che permetta ai cittadini di esprimersi sulle principali questioni del nostro tempo, dall’ambiente alla fiscalità, passando per la democrazia, i diritti digitali e quelli civili. Scorrendo il documento, scritto nel solito ‒ tremendo jargon eurocratico, in mezzo a qualche eccesso di dettaglio procedurale (due pagine su quattro sono dedicate ai vari livelli di governance della Conferenza), si intravede una idea di fondo che somiglia abbastanza alle “assemblee dei cittadini” sperimentate in alcuni Paesi, principalmente anglosassoni, come Irlanda, Regno Unito, Canada e, ovviamente, Stati Uniti. Come sempre, da attentissimo osservatore delle cose del mondo, lo strumento è stato adocchiato da Emmanuel Macron che ha provato a declinarlo pure nella sua Francia latina nel quadro, al solito immodesto, di un grand débat national per la riforma dello Stato.

Più che nella democrazia ateniese ‒ dove tutti i cittadini (ovvero i maschi ricchi) salivano in collina per deliberare il governo della città ‒ queste assemblee affondano le loro radici in una certa cultura tardomedievale, sul cui terreno si svilupperanno la riforma prima e, qualche secolo dopo, le grandi rivoluzioni borghesi. L’assemblea, infatti, non è un organo elettivo e, soprattutto, non si integra nel sistema istituzionale classico, ma viene rappresentata come una sorta di contraltare del potere costituito. Luigi che convoca il terzo stato, insomma.

Nella loro versione più radicale ‒ sperimentata, per esempio, in Irlanda ‒ le assemblee devono essere composte da cittadini scelti in maniera casuale e, dopo qualche mese di lavoro, possono presentare ai Parlamenti e ai governi alcune proposte da prendere in considerazione. Come racconta Politico.eu, che ha dedicato un interessante focus al caso irlandese, le reazioni sono state più deludenti del previsto: l’assemblea aveva votato per la legalizzazione del matrimonio omosessuale, arrivata poi nel 2015 dopo un referendum, mentre altre proposte, come il voto ai sedicenni o una delicatissima revisione delle norme sull’aborto sono rimaste lettera morta. Per farla brevissima, alla fine sono stati il governo e il Parlamento a decidere cosa tenere in considerazione.

In Francia le cose sono andate più o meno nello stesso modo, il “grande dibattito nazionale” è stato prima fagocitato dalle polemiche di chi lo vedeva come un modo molto arzigogolato per offrire al presidente un palco utile a lanciare la campagna per le europee del 2019 (l’iniziativa si è tenuta tra gennaio e maggio), poi è finito schiacciato dai gilet gialli. Oggi di quei sei mesi di discussioni, proposte e riflessioni rimane appena un sito abbastanza scarno con qualche documento su temi come la transizione digitale, la fiscalità e la democrazia.

L’idea che circola a Bruxelles è di organizzare a livello europeo una sorta di “conferenza quadro” da declinare poi a livello nazionale, regionale e addirittura cittadino con i vari leader politici, locali e non, pronti a partecipare, discutere ed eventualmente deliberare insieme ai loro concittadini. L’idea è interessante e ha un qualcosa di romantico se proprio vogliamo, ma rischia di scontrarsi, come in Irlanda e Francia, con la rigidità dei processi democratici e istituzionali moderni. Non è un caso che negli Stati Uniti, dove questo tipo di assemblee sono più diffuse, abbiano assunto due forme abbastanza particolari ‒ nonché autoctone dell’ecosistema democratico americano ‒ ovvero il town/city hall meeting e il caucus. Il primo è un momento d’incontro, frequentato addirittura dai presidenti, dove il politico si mette per due o tre ore al centro di una sala e viene bersagliato ‒ in maniera anche ruvida ‒ dalle domande degli abitanti di quella specifica comunità, l’altro, invece, lo conosciamo tutti essendo uno dei metodi usati da alcuni Stati per selezionare i delegati che eleggeranno il candidato presidente alle primarie (ma che oltreoceano viene utilizzato anche in altri contesti, soprattutto quando occorre prendere decisioni amministrative locali).

Ancora una volta, insomma, l’Unione Europea prova a prendere in prestito qualche strumento dalla grande democrazia americana per provare a fare quel salto in avanti nei confronti dei cittadini tanto desiderato ma, spesso, incompiuto. Il rischio, però, rimane sempre lo stesso: in questi anni all’Europa non è mancata l’elaborazione; come abbiamo scritto altre volte i cassetti della Commissione e del Parlamento europeo sono pieni di progetti, report, documenti, proposte di riforma, per non parlare degli archivi dei centri studi. Il problema dell’Unione semmai è trovare qualcuno o qualcosa (la Commissione europea, il Consiglio, il Parlamento, la Cancelleria federale tedesca…) che si prenda la responsabilità di instradare l’Europa verso una direzione chiara, sia sul fronte istituzionale ‒ slancio federalista o confederazione? ‒ che su quello della proposta. Senza risolvere questo nodo ogni esperimento democratico, assembleare o partecipativo rischia di perdersi nel vuoto più grave, quello politico.

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