Durante la campagna elettorale del 2019-20, Joe Biden aveva promesso che sotto la sua leadership gli USA avrebbero sospeso il trasferimento di armi all’Arabia Saudita e fatto tutto il possibile per rendere il Paese un “paria” del sistema internazionale. Pur attenuando queste critiche dopo essere stato eletto presidente, Biden ha a lungo mantenuto un atteggiamento ostile verso il principe Mohammad bin Salman (detto MbS), responsabile principale dell’assassinio dell’oppositore del regime ed editorialista del Washington Post, Jamal Khashoggi, secondo un rapporto dell’intelligence statunitense che Biden stesso ha voluto fosse reso pubblico nel febbraio del 2021.
Poco più di un anno più tardi, Biden ha incontrato bin Salman durante il suo viaggio in Medio Oriente, primo presidente statunitense nella storia a recarsi direttamente in Arabia Saudita dopo aver visitato Israele. Facile e scontato scorgervi la logica – brutale e ineludibile – di una ragione di Stato che impone compromessi inevitabili ancorché talora estremi. L’Arabia Saudita è partner storico fondamentale degli Stati Uniti. Lo è in un contesto regionale ridisegnato dagli Accordi di Abramo, che hanno in una certa misura formalizzato l’asse costruito da Israele e Arabia Saudita in funzione anti-iraniana. Ma lo è anche rispetto a dinamiche globali di lungo corso – legate inizialmente ai petrodollari e poi sempre più al ruolo di Riyad nel determinare prezzi e disponibilità delle risorse petrolifere ‒ che nel corso del XXI secolo erano parse divenire meno centrali e che la guerra in Ucraina ha in parte riattivato.
Biden ha cercato di spiegare gli obiettivi di questo suo viaggio (e di attenuare le inevitabili critiche negli USA) in un editoriale apparso proprio sul Washington Post. In sintesi, esso doveva servire per riaffermare una leadership stabilizzatrice degli USA in Medio Oriente, capace al tempo stesso di preservare il sistema di alleanze nella regione, di continuare a sostenere Israele riaprendo però il dialogo con i palestinesi (e scongelando i finanziamenti ad essi destinati), di contenere e se necessario punire l’Iran senza venire meno alla disponibilità a riaprire i negoziati sul programma nucleare di Teheran, e di riaffermare l’impegno statunitense nella difesa dei diritti umani e nella promozione della democrazia. Programma politico ampio, impegnativo e non poco irrealistico, questo. Per le tante contraddizioni e ambiguità che vi sottostanno. Ma anche perché la guerra in Ucraina ha creato linee di frattura nuove: ha provocato cioè un’ulteriore frammentazione del contesto internazionale destinata a far sentire i suoi effetti anche in Medio Oriente.
Le contraddizioni sono quelle solite. L’amministrazione Biden promette un approccio più equidistante rispetto al conflitto israelo-palestinese, ma poco può rispetto a negoziati arenatisi da tempo e deve anzi confrontarsi con un altro tema che divide e lacera il Partito democratico. Critica, talora anche aspramente, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e stanzia più di 300 milioni di dollari di aiuti per la Palestina (che si aggiungono a quelli già elargiti nel 2021), rovesciando la decisione di Trump del 2018 di sospendere i finanziamenti statunitensi all’agenzia dell’ONU per i rifugiati. E però si guarda bene dall’usare la leva degli aiuti militari per condizionare le politiche israeliane, portandoli anzi a livelli senza precedenti; riafferma la natura speciale del rapporto tra USA e Israele; e vede anzi la questione entrare prepotentemente entro un ciclo di elezioni primarie dove candidati democratici critici nei confronti di Tel Aviv sono presi di mira da organizzazioni filoisraeliane che attivano le proprie risorse economiche per sostenere figure più moderate.
La volontà dell’amministrazione Biden di rilanciare il negoziato sul nucleare iraniano, in una certa misura funzionale anche al nuovo multilateralismo dell’amministrazione, si scontra con un contesto decisamente meno propizio rispetto a quello di sette anni fa. Teheran ha potuto verificare quanto questi accordi possano essere in balia della volatilità della politica statunitense e della possibilità che un cambio di amministrazione, come quello del 2016, determini un radicale mutamento di rotta. Il fronte regionale anti-iraniano è a sua volta oggi più forte e coeso. Come spesso in passato, l’alleato “speciale” israeliano non è disposto ad alcuna concessione ed esplicita anzi apertamente il suo dissenso con Washington.
La distensione con l’Arabia Saudita si rivela infine complessa da promuovere ed espone soprattutto i limiti e i doppi standard della retorica umanitaria e democratica che Biden ha spesso dispiegato in questo suo anno e mezzo di presidenza. Sia nel suo editoriale sul Washington Post sia nelle dichiarazioni successive al vertice con MbS, Biden ha ribadito l’impegno della sua amministrazione in tal senso, rivendicando i successi ottenuti (ad esempio, nel fermare la terribile carneficina in Yemen) e tornando a denunciare le responsabilità del principe saudita nell’omicidio di Khashoggi. E però, le ambivalenze e finanche le ipocrisie sono davvero troppo patenti per essere occultate, e negli USA si sono levate critiche feroci a Biden, a partire da quelle dell’amministratore delegato del Post, Fred Ryan, che ha definito «vergognoso» l’incontro, e di importanti figure politiche, primo fra tutti Bernie Sanders. Doppi standard e ipocrisie che paradossalmente lo stesso MbS ha potuto rimarcare, ricordando le violenze perpetrate dai militari americani contro i prigionieri del carcere di Abu Ghraib quasi vent’anni fa o la recente uccisione da parte delle forze armate israeliane della giornalista palestinese e statunitense di Al Jazeera, Abu Akleh.
E però l’elemento davvero interessante di questa visita consegue a un contesto internazionale marcato da dinamiche di frammentazione, e per molti aspetti di de-globalizzazione, che rendono ancor più impervia la strada della diplomazia statunitense in Medio Oriente. Perché in teoria offrono a molti tradizionali partner degli USA la possibilità di trovare delle soluzioni alternative al rapporto con gli Stati Uniti, a partire dalle possibili aperture alla Cina, MbS peraltro sottolinea da tempo. Perché ciò conferisce al partner minore una sorta di leva negoziale supplementare, alimentando nella relazione bilaterale quella “tirannia del debole” con cui spesso gli USA si sono dovuti confrontare. E perché tutto questo finisce per spuntare molte delle armi di cui la diplomazia statunitense dispone nei confronti dei suoi principali partner mediorientali.